Sono passati circa tre anni da quando Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Per chi l’ha amato, la sua morte è sembrata un evento impensabile, quasi che il suo cinema da “eterno ragazzo” potesse essere il prodotto di un eterno ragazzo reale, per certi aspetti immortale. Era una sensazione che c’era stata confermata nel 2012 quando avevamo visto il suo ultimo magnifico film, Io e te. Un film girato come fosse un’opera giovanile, con uno sguardo potente, vitale e per nulla scalfito dal passare degli anni. Sapere della sua morte non è stato solo un trauma per gli spettatori della sua generazione, ma anche per chi è venuto dopo e ha visto i suoi film in un’epoca storica diversa da quando erano stati realizzati. Non è mai stato difficile aderire allo sguardo di Bertolucci, perché il suo cinema (anche il più inquieto e claustrofobico) ha sempre parlato di uno spazio vitale e metastorico che esiste al di là di qualsiasi possibile scarto temporale. Come se la sua capacità di costruire raccordi sempre nuovi tra i generi (il neorealismo, la nouvelle vague, il kolossal hollywoodiano) e i linguaggi (la poesia, l’opera, il cinema), di cogliere un certo stupore invisibile del mondo in modo istintivo, lo avesse trattenuto in un tempo fuori dal tempo della modernità, mai intaccato dalla decadenza della vecchiaia o scalzato da nuovi sguardi e stili, sempre e perennemente giovane e originale.

Quel 26 novembre del 2018 gli avremmo chiesto di vivere ancora, anche «solo per un’ora», come canta Gino Paoli in una sequenza immortale di Prima della rivoluzione (1964). Continuare a vivere per dare corpo a quell’immagine di lui vivo e sempre giovane, teneramente infantile anche negli ultimi anni della malattia, che ci eravamo fatti nel nostro immaginario di spettatori, un film dopo l’altro, nei cinquant’anni che passano tra La commare secca (1962) e Io e te. La stessa immagine che avevamo ritrovato qualche settimana dopo al Teatro Argentina, in occasione della commemorazione della sua morte organizzata dalla moglie Clare Peploe, nelle parole e nei ricordi dei (nostri) compagni di vita Bellocchio, Martone, Spielberg, Scorsese, Wenders e tanti altri. Avremmo chiesto a Bertolucci di regalarci un altro dei suoi gesti espressivi liberi e intramontabili, un’altra sequenza da aggiungere all’infinita serie già fissata indelebilmente nella nostra memoria: uno sguardo in macchina dopo quello del finale di Io e te, un dolly come all’inizio di Novecento (1976), una nuova carrellata con l’arrivo a Tara di Athos Magnani in Strategia del ragno (1970).

È come se ce l’aspettassimo ancora queste nuove immagini, quasi non ci rassegnassimo alla sua morte. Oggi, nel 2021, al loro posto ci arrivano invece delle parole. Mi è capitato spesso di pensare a cosa Bertolucci avrebbe detto (o filmato) delle nostre clausure quotidiane. Lui che aveva pensato il cinema come un movimento di raccordo tra l’interno e l’esterno, una proiezione costante del soggetto dal chiuso verso l’aperto. Nelle pagine scritte per la lectio magistralis tenuta nel 2014 all’Università di Parma, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, pubblicate nel volume uscito oggi per La nave di Teseo Il mistero del cinema, troviamo in qualche modo una risposta. Lo dice chiaramente Michele Guerra, curatore del volume e all’epoca promotore dell’iniziativa parmense: quella di Bertolucci più che essere una storia è una «geografia» del cinema. Una geografia di luoghi reali (Parma, Roma, Parigi, Pechino, ecc.) ma anche di stanze, scantinati, appartamenti, città proibite, casolari. La geografia della nostra vita attuale che Bertolucci non ha mai vissuto ma che aveva in qualche modo previsto. La geografia di un confinamento. Chiusi nel buio delle nostre case, che per lui rappresentavano il nucleo genitivo del cinema e della visione, e che invece oggi ci inghiottono in un’esperienza solitaria e anti-cinematografica, ribadita con forza da Scorsese in questi giorni.

Il “mistero del cinema”, a cui fa riferimento il titolo del volume, è allora in fondo quello di una vita che i suoi film avevano per certi aspetti già pensato. Una vita in cui si vive ancora, nonostante tutto. Lo faceva anche lui negli ultimi anni, “prigioniero” nel suo appartamento di Trastevere, impedito nei movimenti che aveva filmato nel minuto e mezzo di Scarpette rosse del 2013. Vorremmo che Bertolucci fosse qui a viverla con noi questa nostra vita. A raccontarla in presa diretta, fuori dal set, nella sua immobilità raddoppiata dalla sedia a rotelle che l’aveva trasformato in uno spettatore di lunghe maratone televisive, come noi oggi e prima degli altri, da Breaking Bad a Madmen.

Degli attimi, episodi, incontri della sua carriera ormai noti che il libro ripercorre – da Pasolini a Godard, dai primi film al successo internazionale –, ce n’è uno, forse meno conosciuto, che rimane impresso più di altri. Nel 1974 a Los Angeles va insieme alla moglie a trovare Jean Renoir, il «regista più amato». Dopo un lungo colloquio lo saluta. Renoir è sulla sedia a rotelle, immobilizzato nel modo in cui sarà Bertolucci trent’anni dopo, e gli dice: «Ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set. Non si sa mai: qualcuno potrebbe entrare, inatteso. È la realtà che ti sta facendo un regalo!». Quando Bertolucci si china per abbracciarlo e baciarlo sulla testa avverte lo stesso odore che sentiva da bambino sulla testa del nonno Bernardo. Era il suo addio a Renoir, al grande cinema e a una stagione irripetibile.

Ci sembra di sentirlo ora quell’odore, chinati noi su di lui. Un’altra volta, magari l’ultima, prima di dirsi addio e ritrovarsi chissà dove e chissà quando. L’abbiamo sentito con Fellini, Wilder, Antonioni e tanti altri. Anche se non lo conosciamo, anche se non l’abbiamo mai toccato, quello è il bacio che gli avremmo sempre voluto dare.

Bernardo Bertolucci, Il mistero del cinema, a cura di Michele Guerra, La nave di Teseo, Milano 2021.

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