Martin Scorsese in un recente magnifico testo su Fellini e la sua originalità creativa, che ha fatto sì che la sua arte coincidesse con l’affermazione della potenza del cinema tout court, sostiene che l’epoca dei grandi creatori di mondi cinematografici sembra essere definitivamente tramontata. Per una serie di ragioni, sociali ed economiche, l’attenzione alla “forma” è stata soppiantata da quella al “contenuto”, che ha reso tutto uniforme: «Un film di David Lean, un filmino di gatti, una pubblicità durante il Super Bowl, un sequel di supereroi, un episodio di serie». In definitiva, l’imprevedibilità e la potenza di creazione è stata soppiantata dal calcolo degli algoritmi.
Questa cosa ha riguardato produttori e spettatori, registi e critici. Ha riguardato, detto in altri termini, un parallelo processo economico e culturale, di cui in questi ultimi mesi abbiamo visto l’accelerazione. Dominio delle piattaforme, insularizzazione spettatoriale, valore ipertrofico dei contenuti (selezionati anche in base al politically correct), ipercodificazione dei dispositivi narrativi, hanno determinato un legame simbiotico e prevedibile tra forme di produzione, di fruizione e di scrittura dell’audiovisivo. L’effetto complessivo è stata una sorta di sedazione dell’immaginazione spettatoriale, uno scolorimento progressivo del suo gusto, orientato ad essere “rassicurato” da un immaginario solo apparentemente variegato, ma di fatto simbolicamente sterile (ideologico) e ben distante dalla possibilità di toccare in una qualche forma il “reale”.
Serge Daney, l’ultimo grande critico cinematografico, dopo aver provato per un paio di anni a fare il critico televisivo, abbandona questo compito e torna al cinema, perché con la televisione crede sia in gioco «un occhio tecno-sociale» allo stato puro che non ha supplemento estetico e dunque non ha bisogno di critica. Ebbene questo occhio tecno-sociale allo stato puro sembra ora essere stato incorporato anche dalla produzione mainstream cinematografica e seriale. E a tale “occhio-dispositivo” sembra essersi assuefatto non solo il gusto dello spettatore ma anche quello del critico (come sostiene, a ragione, Emiliano Morreale). E in un certo senso anche quello dell’università, che dietro la valorizzazione “culturale” dei suoi oggetti sancisce e legittima la loro perdita di esteticità, cioè la loro capacità di innovare esteticamente e dunque di immaginare la possibilità di nuove forme di vita. Perché il cinema ha a che fare con la vita, naturalmente, come già pensava Pasolini e come sottolinea Scorsese nei riguardi del cinema italiano e del neorealismo in particolare, che è stato capace nel secondo dopoguerra con autori come Rossellini, De Sica, Visconti di «giocare un ruolo vitale e redimere l’Italia agli occhi del mondo». E anche il modo di guardare il cinema, di parlarne, di mostrarlo, concerne un gesto vitale. È l’atto del “curare”, una rassegna, una retrospettiva, che, continua Scorsese, «è un atto di generosità – stai condividendo ciò che ami, che ti ha inspirato».
Tutto questo è inesorabilmente finito, tramontato? Riguarda solo il passato? Non ci sono più registi ma solo showrunner, non più curatori ma solo programmatori, non più spettatori ma solo audience, non più sale ma solo home theatre, non più critici ma solo imbonitori?
Che l’opera d’arte non abbia uno statuto speciale, come l’estetica del Settecento ci ha detto, lo sappiamo. Ma che l’organizzazione del sensibile sia tutta uguale, questo è un assunto puramente ideologico. Il sensibile, quei «blocchi spazio-temporali» (Deleuze) che sono le immagini cinematografiche possono essere orientati o a formare “dispositivi” funzionali al mantenimento di uno status quo, attraverso la mediazione di forme narrative ed iconiche standardizzate, o ad immaginare in forma “estetica” una messa in questione del presente, ideandone forme nuove di comprensione e tracciando potenti linee di fuga.
Come ci testimonia Scorsese, registi ed artisti, almeno i più grandi di loro (e qui in Italia ce se sono diversi), continuano a credere alla possibilità del cinema di reinventare il mondo e dunque le forme di vita. Una possibilità non nostalgica, ma attuale, effettiva, presente, quella che permette di accostare The Mule e Martin Eden, C’era una volta ad Hollywood ed Il traditore, ma anche film rari e premiati ai festival, tra i più intensi visti negli ultimi anni, come Atlantis di Vasyanovich o The Wasteland di Bahrami, nei quali il cinema diventa potente arte di «scolpire il tempo». Qui nessun addomesticamento è possibile, nessuna trattamento meramente “culturale”.
Certo, questa possibilità di reinventare il mondo, che connota ancora il grande cinema (non così raro come si crede) necessita di una parola che l’accompagni, che ne sostenga la forza e che attenui contemporaneamente il potere senza energia di molti oggetti diffusi ovunque, segnati da una visualità indifferente, da un “tecno-sociale” senza rilievo.
Il discorso della critica, così come quello dell’università più aperta ed intraprendente, ha un compito, dunque, irrinunciabile, quello di saper tirar fuori da tali film l’idea di cinema che li abita e nel fare questo prendersi carico della tradizione cinematografica tutta (delle sue forme, dei suoi generi, dei suoi grandi autori), solo all’interno della quale questi film prendono rilievo.
Se il cinema riguarda la nostra vita, “prendersi cura” del cinema è dunque anche una delle possibilità più forti per prendersi cura della nostra vita, e dunque per cambiarla, senza assecondarne spinte reattive e regressive come sta accadendo nel nostro presente.
Riferimenti bibliografici
M. Scorsese, Il Maestro. Federico Fellini and the lost magic of cinema, in “Harper’s Magazine”, marzo 2021.