Se è vero – come dice Benjamin – che “nel potere si manifesta lo spirito”, trattare il potere significa trattare lo spirito del tempo. Il potere ha a che fare con i corpi solo in quanto questi hanno a che fare con lo spirito. Plasma i corpi perché vuole conquistare le anime. E questo è sicuramente vero per il neoliberalismo (che in Italia è coinciso con l’epoca berlusconiana), dove le libertà si manifestano nella circolazione illimitata dei desideri, trasformati nel senza-intervallo del godimento. E dove il denaro diventa merce di scambio, non di un corpo ma di uno stile di vita. È lo scarto della escort – al centro di Loro di Sorrentino – rispetto alla prostituta: quest’ultima lambisce bordi di strade anonime, dandosi a scambi sottoposti all’esercizio di un potere misero, che fin dall’inizio ha rinunciato all’anima. La prostituta è la “donna perduta”, ereditata da un immaginario ottocentesco, rialimentata dal mondo felliniano, e che giunge fino alle nigeriane di oggi (dal Garrone di Terra di mezzo al nuovo film di Edoardo De Angelis su Castel Volturno).

L’escort invece è prima di tutto un mondo, uno stile di vita, una villa, una piscina, un hotel a cinque stelle, una bellezza levigata che entra ed esce dall’acqua. L’escort è quella che sottrae lo scambio all’attrito, che si vende per un denaro che è in primo luogo status. Contrassegno forte di un potere che conquista con lo stesso gesto anima e corpo, li rende indifferenti, in uno scambio simbiotico che ne fa un’unità compatta. Per questo la bellezza omogenea delle “olgettine” diventa un valore: rendendole equivalenti, le rende pari al denaro, negando loro la singolarità. Scegliere di raccontare Berlusconi, il potere e le escort, come fa Loro, significa arrivare al cuore della indistinzione neoliberale tra corpo e anima, necessità e libertà. Il potere è la pratica di circolazione illimitata di corpi e desideri, nella equivalenza del militante e della escort, del cittadino e dell’audience (così come dei fedeli e del popolo per il papa di The Young Pope).  Da questa logica del potere è esclusa la Legge, che è una intrusa rispetto allautoregolazione naturale dei “desideri convergenti”. L’unica cosa che sembra resistere a questo dispositivo di scambio è la maschera, perché vincolata alla persona, dunque ad una identità psichica e morale. L’entrata in scena di Servillo/Berlusconi àncora il film ad un corpo-maschera, che incarna un punto di vista, sia pur immorale, sul mondo: come quando rivendica l’importanza di convincere chi ci sta di fronte su una verità che non lo è (per esempio che la merda sia terra, come dice al nipote).

Tutto il cinema di Sorrentino è un cinema senza legge (e dunque senza limiti), o dove l’unica legge è l’istanza di godimento, che anima immagini che sono fin dall’inizio pura visualità, senza alcun rimando all’“alterità” del mondo. Un cinema senza super-Io, dove il mondo è mero riflesso di immagini che glissano le une sulle altre. Il cinema di Sorrentino nasce e si sviluppa nell’epoca del neoliberalismo berlusconiano, e di quell’epoca costituisce la potente traduzione estetico-formale, declinata in forma di “estetizzazione crepuscolare” (tant’è che anche qui Berlusconi è colto in un momento di crisi).  Berlusconi rappresenta dunque l’intercessore ottimale di questo cinema. Il punto è che è un intercessore ingombrante, che assorbe e condiziona ad ogni passo il film. Come quando entra in scena, teatralmente, vestito da odalisca, a contrassegnare che adesso la scena è sua: sarà lui ad occuparla (con tutta la sua storia), sarà difficile contrastarlo.

Il caimano (2006) di Moretti aveva adottato una prospettiva opposta, collocando Berlusconi sotto la lente del giudizio morale e moltiplicandone, con felice intuizione, le maschere. L’imprenditore spudorato, il donnaiolo ridicolo, il politico condannato, costituivano i tre lati di una maschera capace di sottrarre il film ad ogni biografismo. Tratto che Il caimano condivide con Loro, differenziandosi dal cinema americano, dove parlare del potere ha significato parlare di nomi propri: da JFK a Lincoln a J. Edgar. Restituire il potere come maschera significa riconsegnarlo nei suoi tratti condivisi. Tant’è che in gioco nell’uno come nell’altro film è il berlusconismo. Resta da vedere, e non è cosa da poco, la posizione dalla quale lo si guarda.

Adottando uno sguardo morale (punto di vista del super-Io), e in una prospettiva che eredita dal grottesco della commedia all’italiana, Moretti riconsegna il berlusconismo come dispositivo di valori e di pratiche, da criticare. Ai valori incarnati dalla “maschera scissa” di Berlusconi (spudoratezza, cinismo, narcisismo seduttivo, aggressività), che esprimono tratti di un sentire comune italiano, si contrappongono – ma al fondo confermandoli – il giudizio, la critica, il moralismo. E questo porta Moretti all’intuizione più radicale, quella di prestare il suo stesso volto e corpo d’attore al Berlusconi politicamente “eversivo”, palesando come, nel gioco di maschere, spudoratezza e moralismo possano sostenersi a vicenda.

La maschera-Berlusconi viene letteralmente smontata e rimontata da Moretti, attraverso la mediazione del film da farsi e l’utilizzazione di  materiali di repertorio (immagini televisive). Incarnando e fondando i “valori di un’epoca”, Berlusconi può essere restituito soltanto attraverso una presa di distanza critica, che solo l’esagerazione grottesca, il moltiplicarsi delle maschere, e l’eterogeneità dei materiali montati, possono garantire.

Per Sorrentino il potere è uno stile di vita, una corte con “Lui” e “Loro”.  Chi lo detiene confida nella capacità di questo potere di attrarre attraverso la sua mera esposizione. Il denaro e i corpi sono ciò che più facilmente si può esporre, e per molti versi si deve esporre, per alimentare il potere stesso di chi partecipa allo scambio (e dall’una e dall’altra parte). E questa esposizione è garantita da una messa in scena, da una visualità satura, ma senza punti di vista.

Per Moretti il potere è istituzione di valori, costruzione del simbolico, formazione. E in quanto tale criticabile, sempre. Ma la colpa di Berlusconi è quella di aver incarnato, ad esclusivo perseguimento dei propri interessi, i valori sbagliati, riportando e annullando i confini tra onesto e corrotto, vero e falso, giusto e ingiusto, nel solo utile per sé. Costi quel che costi. Con questo, determinando un’anti-formazione, completando una destrutturazione del simbolico percepibile ovunque, a partire dal suo rivolgersi agli italiani come a bambini di nove anni (così recitava il primo vademecum dei candidati di Forza Italia). Rappresentare questo potere significa prendere posizione, assumere un punto di vista, disarticolarne l’immagine compatta.

Aderire al potere come stile di vita significa al fondo sposarne la sua dimensione anarchica, il fatto che non risponda a null’altro che a se stesso. Coincidenza dell’anarchia del potere e dell’ordine visuale che ce lo restituisce. All’origine di questo potere c’è Dio (The Young Pope, Loro). Il governo degli uomini, dei fedeli, dei linguaggi e delle immagini, non ha fondamento che in se stesso, è onnipotente, e dunque divinamente anarchico.

Pensare invece il potere come costruzione (sia pura mancata) del simbolico significa al fondo individuarne i limiti, e dunque renderlo criticabile e scomponibile. Scomposizione del potere nelle maschere che lo costituiscono e della forma che ce lo restituisce. Qui nessuna anarchia, ma il dovere di dire, di testimoniare ciò che accade (dovere che guida l’insistenza della giovane cineasta de Il caimano a fare comunque il film).

Nonostante Loro sia diviso in due parti, il dispositivo visuale è omogeneo. Nonostante Il caimano sia un solo film, la sua articolazione è perlomeno doppia, la forma non si chiude mai.

E come non vedere tutto questo anche nei film sui papi. Il giovane papa che – in The Young Pope – coniuga sogni neoliberali (“C’è solo una strada che conduce alla felicità e si chiama libertà”) e politiche oscurantiste, in una rivendicata affermazione degli opposti (“Io sono una contraddizione” dice Lenny Belardo). E il vecchio papa – il cardinale Melville di Habemus Papam – che sceglie invece di non varcare il soglio di Pietro, per non superare il limite: non ne ha le forze e tale superamento avrebbe significato  non interrogare ciò che nella sua vita è rimasto di incompiuto (per esempio il sogno giovanile di fare l’attore). In quest’ultimo caso abbiamo il peso della fuga e dello sfaldamento del simbolico, la cui riconfigurazione faticosa e rischiosa può rivelarsi anche un’opportunità; nel primo, si tratta invece di esercitare il potere in un delirio di onnipotenza, dove l’anarchia si innesta nel narcisismo: “Io amo me stesso più del prossimo mio. Più del Signore. Io credo solo in me stesso. Io sono il Signore onnipotente”

Nanni Moretti e Paolo Sorrentino sono i registi che in questi anni hanno avuto i sensori più aperti nei confronti del tempo presente, del suo spirito e dunque anche del potere. Berlusconi e il Papa non sono due questioni da poco, ed entrambi li hanno affrontati con film di peso, ma anche indicativi di due strade radicalmente divergenti. Per Moretti, il tempo presente non può essere che tempo di crisi. Questo ha significato rappresentare in forma critica le istituzioni che presiedono alla costituzione del simbolico (scuola, chiesa, politica), smascherandole fin nei ruoli apicali. Il suo sguardo ha sempre risposto ad una istanza etica, tesa a testimoniare ciò che stava accadendo. Questo lo ha fatto, ereditando da tutta una tradizione moderna del nostro cinema, a partire dalla commedia all’italiana e dal grottesco. Per Sorrentino, il tempo presente è quello dello scambio, di ciò che è equivalente o viene reso tale: il potere e le immagini, la forza e il declino, lo spirito e i corpi, l’ebbrezza e la malinconia. Questa equivalenza anarchica ha trovato espressione in una visualità consonante con tale scambio, fino al punto rischioso però di scambiarsi con se stessa (in un vacuo autoriferimento). Sorrentino è il massimo interprete di un neoliberalismo estetico, capace di restituire attraverso una visualità che scambia tutto con tutto il sentimento di malinconia che abita al fondo dell’ebbrezza narcisista, e che nel potere trova la sua massima visibilità. Ma con il declino del neoliberalismo politico, il cinema di Sorrentino rischia di risultare fuori tempo e di accompagnare tale tramonto.

Bazin divideva i registi in quelli che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà. Aggiornando e riorientando questa distinzione, diciamo che ci sono registi che credono nell’immagine (e nella realtà) e quelli che credono nel visuale. I primi incontrano il mondo attraverso la finitezza delle immagini, i secondi lo scambiano con l’illimitatezza del visuale; i primi prendono posizione, i secondi si accordano; i primi usano le forme per creare degli intervalli, i secondi producono visualità per esorcizzare i vuoti; i primi pongono problemi, i secondi istituiscono teoremi; i primi aiutano a comprendere il mondo e (forse) a cambiarlo, i secondi seducono ma lasciano inermi.  

Nanni Moretti appartiene ai primi, Paolo Sorrentino ai secondi, e il loro Berlusconi differisce radicalmente in questo: oggetto di una immagine (critica), o elemento di una visualità (compiacente). Ma il destino dei secondi, segnato dalla totalizzazione cosmica della dimensione visuale, sembra orientato al declino, come i corrispettivi politici; mentre quello dei primi, segnato da un incontro con il tratto problematico della realtà contingente, non smetterà di essere la fonte perennemente rinnovata del nostro rapporto con il cinema e con il mondo.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, L’evoluzione del linguaggio cinematografico, in Id., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986.
G. Canova, Divi Duci Guitti Papi Caimani. L’immaginario del potere nel cinema italiano, da Rossellini a “The Young Pope”, Bietti, Milano 2017.
R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pellegrini, Cosenza 2015.

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