Il milione e mezzo di persone commosse, i pugni chiusi e le bandiere rosse, il picchetto d’onore del cinema italiano: sono immagini saldamente radicate nel nostro immaginario, alle quali dovremmo essere ormai assuefatti. Eppure, come quella di Pina uccisa dai soldati nazifascisti, hanno ancora una loro forza dirompente: sarà forse per quella massa umana inimmaginabile, cioè che nessuna immagine è riuscita a restituire nella sua totalità, articolando di fatto quel fuoricampo di cui anche noi spettatori del 2024 in qualche modo facciamo parte. Non a caso, una signora seduta nella poltrona accanto a me piange: forse non ha nemmeno fatto a tempo a votarlo, Enrico, data l’età. Una commozione per interposta persona, una nostalgia per tempi che non abbiamo vissuto: Berlinguer è di tutti, ora quasi più che allora.

Dopo Aldo Moro, Giulio Andreotti e Bettino Craxi, Enrico Berlinguer era l’ultimo grande protagonista della Prima Repubblica la cui vita non era ancora stata oggetto di adattamento cinematografico. Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre colma questa lacuna, proponendo un ritratto “classico” – cioè saldamente incluso nel canone del cinema biografico contemporaneo – dove tuttavia emergono alcune soluzioni narrative e formali sulle quali può essere interessante riflettere. A partire dal titolo stesso, uno dei pochi nel contesto del biografico-politico italiano del nuovo millennio a fare esplicita menzione dell’identità anagrafica del biografato, invece che ricorrere a maschere (di caimani, divi, belle addormentate…) o a espressioni più allusive (pronomi, toponimi, motti, azioni…).

Presentato alla Festa del cinema di Roma, il film racconta una parte della vita di Berlinguer compresa tra due attentati alla vita, il primo (fallito) subìto in prima persona in Bulgaria nel 1973, il secondo (riuscito) vissuto come spettatore nel 1978, quello a Moro. L’appuntamento con la propria, di morte, viene invece relegato in una coda finale, preceduta da un cartello piuttosto scarno e restituita solo attraverso le immagini d’archivio, incluso uno slideshow fotografico che funge da soglia tra la narrazione e i titoli di coda: un procedimento piuttosto convenzionale, sulla falsariga, ad esempio, di I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, l’opera che probabilmente inaugura la vague biografica italiana del nuovo millennio. La morte come pendant della vita: una dimensione “tanatografica” alla quale il biopic italiano non vuole (o non può) rinunciare.

Nonostante l’esergo gramsciano posto in apertura, non è chiarissimo a chi debba essere ascritta questa “grande ambizione”, se – quantomeno – al personaggio, all’attore o al regista; e che sia da attribuire a tutti e tre non è ovviamente un’ipotesi da scartare. Carattere del personaggio, prestazione attoriale e stile registico sono ovviamente tra i principali elementi di ogni film, ma nel biopic sembrano aver assunto un valore supplementare, relegando parzialmente le altre componenti del linguaggio cinematografico a un ruolo ancillare. Berlinguer non fa dunque eccezione: sono questi tre a costituire il centro da interrogare per saggiare il posizionamento dell’opera nel contesto più ampio di un fenomeno che sta assumendo una posizione di assoluta preminenza nel panorama audiovisivo contemporaneo. Vediamoli in ordine.

Rispetto ai protagonisti di Il divo (2008) di Paolo Sorrentino e di Hammamet (2020) di Gianni Amelio, il Berlinguer di Segre è molto più affine alle varie versioni di Moro proposte negli ultimi anni, a partire da Marco Bellocchio. Si tratta in effetti dei due volti della Prima Repubblica – insieme a Sandro Pertini – ai quali si guarda con maggiore nostalgia, se non proprio affetto (a Berlinguer non si può che voler bene…). Non è un caso allora che questo Berlinguer sia di fatto una figura speculare a Moro (qui interpretato da Roberto Citran), tanto nella narrazione costruita dal film quanto nelle soluzioni adottate in precedenza per rappresentare il presidente DC. Al punto che alla fine Berlinguer quasi cede il ruolo di protagonista a Moro: è infatti la morte di quest’ultimo a riempire tutta la scena, facendo del segretario del PCI un comprimario. Tuttavia, se nelle varie opere che lo hanno raccontato Moro è sempre stato raffigurato come un personaggio dotato di un potere decisionale autonomo, in questo caso l’azione di Berlinguer ha senso solo nel rapporto con gli altri, includendo nella costruzione del personaggio quella dimensione collettiva propugnata per tutta la vita da lui stesso. Una scelta che ha un effetto di ritorno anche sulla figura di Moro: a differenza di Andreotti, ad esempio, il suo personaggio non proferisce parola fino a quando non iniziano le interlocuzioni di fine 1975 che apriranno al “compromesso storico”, un nome che reca già in sé la negoziazione che coinvolge almeno due soggetti e che prova a restituire l’idea di un gioco politico concertato, non di una storia fatta dalle azioni eroiche dei singoli. Ecco allora la prima domanda ambiziosa del film: quali sono i margini di configurazione di un’azione corale tanto nella politica quanto al cinema, in un’epoca come la nostra segnata da icone individuali in grado di piegare gli eventi al proprio volere?

Dare corpo e voce a Berlinguer non è un’impresa semplice. Non lo è in generale prestare la propria figura a icone del passato, sulle quali circolano immagini e immaginari radicati nella memoria collettiva; non lo è in particolare dopo essere stato – tra gli altri – Tiziano Terzani, Giacomo Leopardi, Antonio Ligabue, Matteo Messina Denaro. Elio Germano è tra gli attori che si muovono con maggiore destrezza sul filo sottilissimo che divide la credibilità della maschera e la riconoscibilità del volto, per usare una categorizzazione cara a Maurizio Grande. La versatilità dell’interprete romano è ben nota, così come la sua capacità di restare se stesso attraverso l’ampio spettro dei ruoli ricoperti: tuttavia, il personaggio di Berlinguer esaspera questa attitudine ambivalente di Germano, suscitando un’inconciliabile indecisione tra la perfetta aderenza al modello reale e la completa riconoscibilità della figura attoriale, tra un corpo e una voce ascrivibili al personaggio storico e un volto riconducibile all’interprete. In questa scissione non ricomponibile sta dunque la seconda grande ambizione inscritta nella prestazione recitativa di Germano, e della quale il biopic è la quintessenza: come si fa a rimanere “auttore” senza sparire dietro a un personaggio che noi spettatori vorremmo che fosse quanto più fedele possibile all’originale per vincere – in questo caso soprattutto – il lutto della scomparsa e la nostalgia del passato?

Il biopic è stato considerato per buona parte della sua storia come un genere rigido, legato a schemi fissi e soluzioni stereotipate. Da qualche anno l’orientamento critico è mutato, ma un senso di scetticismo di fondo continua permanere. Tra i registi italiani, Andrea Segre potrebbe sembrare il meno adatto a proseguire il rinnovamento biografico in corso, a maggior ragione con un soggetto così legato al “centro” – in senso topografico e topologico – piuttosto che alla periferia, come è tipico della filmografia del regista veneto. Eppure, il fatto che il biopic attiri l’interesse di figure così eterogenee ci testimonia delle attuali potenzialità di questo filone, anche solo come momento di sperimentazione dentro un percorso individuale. Segre in questo caso porta la sua formazione documentarista dentro lo spazio della ricostruzione biografica, non tanto come natura del racconto quanto piuttosto come relazione tra piani e montaggio. Così, se l’ampio ricorso a materiali d’archivio non sorprende in sé, è la sua combinazione con le parti di finzione a risultare più interessante. Il montaggio intermediale che punteggia il racconto si alterna infatti a lunghe riprese con la macchina a mano, che spesso obliterano addirittura il campo e controcampo e i raccordi più semplici, dando alla ricostruzione storica l’andamento di un flusso instabile e anti-monumentale, al limite documentale nei casi in cui la finzione rimette in scena l’archivio alla lettera. La finzione sembra così articolare un’operazione di sutura dei vuoti dell’archivio visivo, invertendo il rapporto di forza tra i documenti e la loro finzionalizzazione, passando a volte da un regime all’altro attraverso raccordi che danno un’illusione di continuità. Qui emerge allora la terza grande ambizione: esistono dentro l’operazione biografica margini di manovra autoriale senza che questa pregiudichi la possibilità del pubblico di riconoscersi in quelle immagini e nell’immaginario che ne scaturisce?

Alla luce di queste tre questioni, il film di Segre ci permette di mettere meglio a fuoco alcuni elementi distintivi del cinema biografico contemporaneo, che sembra sempre di più un punto necessario di transito di poetiche autoriali eterogenee. E forse non c’è luogo più opportuno di un film su Enrico Berlinguer per pensare il biografico come un incessante compromesso tra spinte rivoluzionarie e controspinte conservatrici, tra fughe di libertà e richiami all’ordine, tra disobbedienza al canone e obbedienza alla Storia. Su questo compromesso si innestano del resto una serie di domande ulteriori, che al momento rimangono sospese. Il biopic sta dunque diventando un luogo franco di incontro per autori differenti tra loro, ma che in questa “terra di nessuno” trovano un’occasione di confronto, di stabilizzazione, di saggiatura delle proprie coordinate? Il biopic si sta configurando come campo gravitazionale che esercita una forza che attrae traiettorie con provenienze e destinazioni assai diverse tra loro? Il cinema biografico, insomma, è pronto a occupare dentro la cultura filmica il ruolo che il cinema del reale sta occupando ormai negli ultimi? Se l’interesse da parte della teoria è ancora timido, da parte dell’industria è innegabilmente più vivo che mai, come dimostrano i cartelloni cinematografici di queste settimane. Il cinema è biografico, sembra asserire quest’ultima: occorrerebbe capire se si tratta di una congiuntura limitata, o se invece è una condizione intrinseca all’audiovisivo che solo adesso mostra le sue potenzialità rimaste sopite per troppo tempo.

Riferimenti bibliografici
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
M. Grande, Eros e politica. Sul cinema di Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci, P. e V. Taviani, Protagon, Siena 1995.
C. Jandelli, I protagonisti. La recitazione nel cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia 2013.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

Berlinguer – La grande ambizione. Regia: Andrea Segre; sceneggiatura: Andrea Segre, Marco Pettenello; fotografia: Benoit Dervaux; musica: Iosonouncane; interpreti: Elio Germano, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Stefano Abbati, Francesco Acquaroli, Paolo Calabresi, Andrea Pennacchi, Elena Radonicich, Fabrizia Sacchi, Giorgio Tirabassi; produzione: Vivo Film, Jolefilm, Rai Cinema, Tarantula, Agitprop; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, Bulgaria, Belgio; durata: 122’; anno: 2024.

Share