Nella prefazione a Bérénice, Racine ci dice che le tragedie con una struttura semplice sono da preferire a quelle troppo complesse, e che in fondo le regole aristoteliche di unità di spazio e di tempo corrispondono a tale ideale. L’ispirazione classica deve passare per la forma: «Era da tempo che volevo provare a fare una tragedia con quella semplicità d’azione così apprezzata dagli Antichi» (Racine 1994, p. 32).
La semplicità della tragedia di Racine sta nel suo ruotare intorno a tre figure che in scena non fanno di fatto nulla: oltre a Bérénice, regina di Palestina, c’è l’imperatore di Roma Titus e il re di Comagène Antiochus.
Ma prima di tutto, Bérénice di Racine è realmente una tragedia? Non lo pensava per esempio Théophile Gautier, quando diceva che Bérénice non è veramente una tragedia, perché c’è solo versamento di «lacrime» e non di «sangue». E non aveva tutti i torti. È quello che sembra aver intuito Romeo Castellucci, nella sua messa in scena di Bérénice con Isabelle Huppert come protagonista assoluta, vista al Mercadante di Napoli.
Lo spettacolo di fatto è un unico monologo, che radicalizza la “semplificazione” raciniana in direzione melodrammatica, rinunciando a dare parola agli altri personaggi, inclusi Titus e Antiochus, trasformati in due giovanissimi danzatori. Se per Aristotele non può esistere tragedia senza mythos, senza intreccio, e cioè senza azione, il carattere patetico del melodrammatico, che getta i personaggi in una condizione di radicale passività, può arrivare ad una quasi totale assenza di intreccio.
Il fatto non solo che non accada nulla, ma che non possa accadere nulla, perché l’amore getta in una condizione di isolamento e di stallo, in cui manca la transitività della parola stessa, e cioè il coraggio, sia per dire che si ama che per rinunciare all’amore proprio perché si ama troppo (o almeno così si dice). Una parola che, come dice Titus, è come se fosse “glacée”, impossibilitata ad essere pronunciata.
Questa sorta di patetizzazione estrema, di “tristesse majesteuse”, è sufficiente per Racine a definire la nuova forma della tragedia. Ma in definitiva si tratta di una negazione della tragedia stessa e dei suoi effetti “catartici” (è un’«anti-tragedia», dice Richard Parish in Racine 1994).
Un ribaltamento del tragico in un pathos melodrammatico, in cui i soggetti maschili si trovano in una sorta di condizione di impotenza giovanile, portata in scena proprio da due ragazzi che rappresentano Titus e Antiochus. Entrambi sono collocati davanti all’impossibilità – o alla non volontà – di accedere ad un femminile che al fondo sentono minaccioso. Titus vuole proteggere la sua fuoriuscita dallo stato filiale, il suo accesso al potere. A Titus è da poco morto il padre, di cui in qualche modo desiderava prendere il posto («J’ai même souhaité la place de mon père», ivi, p. 56), e fa allontanare da sé Bérénice: «Con uno stesso movimento sono distrutte le due figure del Passato, il Padre e la Donna (tanto minacciosa in quanto l’amante-figlio le è obbligato)» (Barthes 1966, p. 217).
È attraverso il doppio lutto che Titus accede al riconoscimento della sua identità adulta, sigillata dal Potere. E tutto questo negando alla fine il conflitto, che non ci sarà. La morte, evocata e paventata, sarà sostituita dalla partenza di Bérénice verso l’Oriente: «Le figure del conflitto si separano senza morire, l’alienazione ha fine senza ricorso alla catastrofe» (ivi, p. 218).
Su una scena dove dominano nebbia e velature, lo spettacolo è tutto costruito su Bérénice-Isabelle Huppert, sulla sua parola monologante, sul suo aggirarsi con lenti movimenti, posture ieratiche, sul suo creare fantasmi, patire l’abbandono, invocare la morte, per poi partire, abbandonare la scena. Ma al centro è soprattutto il linguaggio di Bérénice, un monumento alla sua solitudine, popolata di presenze fantasmatiche, tutte chiuse nel loro “io”. Un linguaggio che si fa metallico, immerso nelle sonorità di Scott Gibbons, fino ad incepparsi – con una grande intuizione – nel finale, assurgendo ad una progressiva afasia. Quel linguaggio che nella tragedia raciniana era stato la fonte di una intransitività strutturale, forma di una elusione scettica intrisa di sentimentalismo e lacrime, qui dopo essersi intensamente plasmato nel vuoto, con una magnifica Huppert a sostenerlo, pian piano nel finale sfuma. Bérénice, che abbiamo anche visto abbracciata a termosifoni e alle prese con lavatrici, si inceppa, la voce balbetta, nel finale la parola sofferente e lamentosa stenta ad uscire.
E con una ulteriore mossa, Castellucci ci mostra, scrivendolo anche sul fondo della scena, che Bérénice è Isabelle, l’attrice. E che noi spettatori forse siamo il Senato romano. E lei ci allontana, non vuole essere osservata, guardata, che per un’attrice significa esistere. “Ne me regardez pas” sono le ultime parole di Bérénice-Isabelle, mentre si allontana verso il fondo, destinate a noi che l’abbiamo amata vedendola sulla scena, non potendo fare nulla per salvarla.
Ma forse la salvezza oggi è proprio in questa partenza, in questa sottrazione allo sguardo di chi si dice innamorato senza saperci veramente amare, in questo esistere non per accumulo ma per sottrazione, nell’essere attrice non per occupare la scena ma per negarla, per abitarne il suo vuoto. Nessuno come Isabelle Huppert avrebbe oggi potuto rispondere meglio alla grandezza ed originalità di questo compito.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, L’uomo raciniano, in Id., Saggi critici, Einaudi, Torino 1966.
J. Racine, Bérénice, Gallimard, Paris 1994.
Bérénice. Testo: liberamente ispirato a Bérénice di Jean Racine; concezione e regia Romeo Castellucci; musiche: Scott Gibbons; costumi: Iris Van Herpen; assistenza alla regia: Silvano Voltolina; direzione tecnica: Eugenio Resta; tecnici di palco: Andrei Benchea, Stefano Valandro; tecnico luci: Andrea Sanson; tecnico del suono: Claudio Tortorici; costumista: Chiara Venturini; interpreti: Isabelle Huppert, Cheikh Kébé, Giovanni Manzo, Pasquale Aprile, Renato Bisogni, Matthew Ford, Tony Iannone, Emanuele Martorana, Maurizio Oliviero, Alessio Palumbo, Dario Rea, Rodolfo Salustri, Alberto Scozzesi, Salvatore Testa, Frank Wolleb; produzione Societas, Cesena; Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier coproduzione Théâtre de La Ville Paris -France; Comédie de Genève, Switzerland; Ruhrtriennale, Germany; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; deSingel International Arts Center, Belgium; Festival Temporada Alta, Spain; Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Italy; Onassis Culture – Athens, Greece; Triennale Milano, Italy; National Taichung Teater, Taiwan; Holland Festival, Netherlands; LAC Lugano Arte e Cultura, Switzerland; TAP – Théâtre Auditorium de Poitiers, France; La Comédie de Clermont – Ferrand – ScèneNationale, France; Théâtre national de Bretagne – Rennes, France; durata: 90′; anno: 2025.