Comincerò con una certezza: gli scritti completi di Bazin, attesi da anni, recentemente pubblicati per le Éditions Macula, appassionatamente curati, commentati, introdotti da Hervé Joubert-Laurencin (con la collaborazione di Pierre Eugène e Gaspard Nectoux), costituiscono un avvenimento negli studi internazionali sul cinema.
Anche soltanto a osservarli, questi Écrits complets si configurano come un’opera impressionante che, per essere descritta, ha bisogno di numeri: due volumi (severissima copertina nera, rilegati e in cofanetto), più di 2800 pagine complessive, avviate da una vasta introduzione del curatore; vi si raccolgono, in 24 ampie scansioni, ciascuna delle quali dotata di un titolo e presentata da Joubert-Laurencin, 2681 testi di Bazin, numerati, annotati, articolati secondo progressione cronologica; alle 24 ripartizioni segue un’altra sezione intitolata “Varia”, che raccoglie, tra l’altro, ulteriori testi reperiti dopo la raccolta degli scritti, una conferenza, manoscritti e dattiloscritti, e ancora materiali sul corto documentario Les églises romanes de Saintonge che Bazin aveva progettato di realizzare, tra un gran numero di altre cose, nel periodo finale della sua vita; chiudono l’opera una sezione (“Ouvrages posthumes”) che riprende e dettaglia le undici opere postume in volume a firma di Bazin pubblicate tra il 1958 e il 1983 (vale a dire tra l’apparizione del tomo 1 di Qu’est-ce que le cinéma? e l’antologia Le Cinéma français de la Libération à la Nouvelle Vague, curata da Narboni), e più di 200 pagine di Indici.
Ora, Bazin è stato, con ogni probabilità, insieme ad Ejzenštejn, la più grande fabbrica di idee sull’immagine filmica del XX secolo. La sua vertiginosa riflessione sul rapporto tra la realtà e l’immagine, declinata lungo le linee della più compiuta consapevolezza del carattere di duplicità dell’immagine filmica (ciò che trascrive una parte di mondo nel momento stesso in cui lo trasfigura), sorretta da un’indagine incredibilmente variata, mutidirezionale, stratificata su una delle questioni più ardue che si possano declinare negli studi sul cinema e che siamo soliti chiamare realismo, era e resta ineludibile per qualsiasi discorso sul cinema che di essa intenda nutrirsi o che da essa intenda porsi a distanza.
Ma, esattamente, a quale Bazin facciamo riferimento? In un passaggio della sua introduzione, Joubert-Laurencin ci lascia pochi dubbi: i tredici libri firmati Bazin pubblicati a partire dal 1950 (i due — il primo Welles, il De Sica in italiano —, apparsi con Bazin vivo, più gli altri postumi, cui accennavo, usciti dopo il ‘58) costituiscono meno del dieci per cento di tutto quello che Bazin ha scritto. È in larghissima parte riferendosi a questo dieci per cento scarso, osserva il curatore, che la riflessione sulla pratica critica, sul pensiero teorico, sull’istanza analitica, e in generale sull’universo Bazin, si è concentrata negli anni.
Inoltre, se è vero che Bazin è stato presto considerato un autore comunque ineludibile, è altrettanto vero che con lui — dunque soprattutto con questa parte del suo lavoro che tanto ha dato da pensare — siamo di fronte a un autore che in epoche diverse e a diverse latitudini, oltre che troppo spesso ridotto in cristallizzazioni discorsive volte a restituirne i lineamenti di pensiero, è stato evidentemente e lungamente mal compreso. Talvolta, certo, in modo del tutto sorprendente, dal momento che a scongiurare alcuni dei fraintendimenti, i più vistosi almeno, che hanno accompagnato la sua ricezione, bastava ad evidenza il Bazin di cui si disponeva. In ogni caso, il dato relativo alle percentuali è impressionante.
E allora davvero è un nuovo Bazin quello che queste 2840 pagine degli Écrits complets ci restituiscono, dal momento che qui, per la prima volta, pezzo a pezzo, articolo dopo articolo, idea dopo idea, tutto il suo immane lavoro, prodotto in un quindicennio di attività, ci si presenta come mai prima ordinato, disteso, disponibile, pronto a essere attraversato e scandagliato in ogni sua parte.
Certo, si può subito pensare, di fronte all’integrale Bazin, di leggerlo innanzitutto a partire dai grandi saggi dell’autore, di rileggere cioè i suoi testi più celebri potendo contare sulla possibilità di perlustrare tutti gli altri scritti in mezzo ai quali ora compaiono, di ritrovare quelli in questi (abbozzi, ipotesi, filamenti di idee eventualmente sviluppati, ripresi, riconfigurati), di riscoprirli alla luce di una costellazione amplissima, mai così ordinatamente a portata di mano, di pensieri critici, di piegature teoriche, di notazioni storiche, di movenze analitiche.
Ma se si comincia a leggere i due volumi, ci si accorge presto che è assai più produttivo, e più emozionante, non rileggere, ma più semplicemente leggere tutto Bazin, da cima a fondo, articolo dopo articolo, idea dopo idea e incontrare «un altro uomo», dice Joubert-Laurencin, «un altro Bazin rispetto a quello che conoscevamo».
Bazin è nuovo allora, in questi Écrits complets, innanzitutto nella quantità, ma anche nei modi, nelle articolazioni, nei segni, che in quella quantità prendono forma: il suo pensiero, le sue idee, la sua scrittura, si possono leggere in base alle sedi, alle testate (quasi 60, ricorda Joubert-Laurencin, per 7 delle quali ha tenuto una rubrica fissa) che li accolgono, così come ai «ritmi paralleli», differenti, che esse impongono all’autore: il ritmo
di un quotidiano, “Le Parisien libéré”, per il quale egli scrive dalle due alle tre volte la settimana, e con maggiore frequenza nei periodi di festival; quello dei settimanali, “L’Écran français“ nel dopo-guerra, poi “Radio-Cinéma-Télévision“ e “L’Observateur“ negli anni ‘50; quello dei mensili come soprattutto i “Cahiers du cinéma“ e “Esprit“; quello di pubblicazioni più puntuali […] talvolta seguite per qualche mese o qualche anno.
E allora, per restare alle sedi d’edizione, ecco il Bazin del “Parisien libéré” — per cui il critico scrisse dal ’44 alle ultime fasi della sua vita (l’ultimo articolo per il quotidiano, su Les Amants di Malle, esce il giorno prima della sua morte): si tratta di più di 1300 contributi (!) che in questi Écrits riportano alla luce, nella sua interezza, dice il curatore, «un Bazin dimenticato, il critico del quotidiano ad ampia tiratura, l’osservatore attento alla molteplicità, unica al mondo, delle uscite parigine del mercoledì». Perché il lavoro di Bazin, le sue scoperte, le sue intuizioni, si rifanno sempre all’incontro con gli oggetti che il cinema gli pone davanti e con cui di volta in volta, prendendo posizione, si misura. In questi testi per lo più brevi (o comunque non molto ampi come spesso ne “L’Écran français”, nei “Cahiers”, in “Esprit”), si fanno allora incontri straordinari, talora sorprendenti, in cui si compongono i tratti di una scrittura sempre meticolosa, informatissima, acuta, piena di rigore.
Dalle sedi agli oggetti: non si può non rilevare come gli scritti completi ci restituiscano a tutto tondo un Bazin critico e teorico della televisione. Bazin ha scritto con regolarità sulla TV dal 1952 fino all’anno della sua morte, soprattutto, ma non solo, su “Radio–Cinéma–Télévision”. Si ha qui a che fare con un corpus di circa 150 articoli, che questi Écrits riuniscono per la prima volta, in cui con attenzione, con curiosità notevolissima, con la solita, proverbiale perizia analitica per il fatto tecnico-formale (e, in una fase aurorale della TV francese, propriamente espressivo), Bazin interroga le potenzialità del fenomeno televisivo che, dice, occorre tentare di «scoprire con umiltà» (1953).
Intesse riflessioni sul nodo della «presenza» — la diretta è «la presenza dello spettacolo a se stesso» e avanza l’ipotesi di provare «l’emozione di vivere con l’immagine, di scoprirla nella sua nascita» (1952); sulle possibilità che si produca «tra la televisione e il cinema più che una collaborazione, una vera simbiosi», perché la TV può ridare al cinema «i vantaggi, che esso ha da tempo dimenticato, di una semi-improvvisazione» (1953); sul rapporto — a proposito delle émissions dramatiques in diretta — tra teatro, cinema e televisione, che «procede dal cinema, attraverso l’immagine e lo schermo, ma partecipa del fatto teatrale attraverso la presenza […] temporale dell’attore che è […] davanti alla camera nello stesso istante in cui percepiamo il suo riflesso sul piccolo schermo» (1956).
Pure, Bazin coglie presto, della TV, le insufficienze o proprio le derive, fino ad avanzare dubbi cruciali, osserva Joubert-Laurencin, «sul divenire culturale e sociale della televisione», di cui ancora ragiona, poco prima di morire, attraverso due dei suoi registi più amati, Renoir e Rossellini, che andavano a misurarvisi.
E allora, certo, è anche attraverso i cineasti più amati — Welles, Renoir, Rossellini, De Sica (e Zavattini, e il neorealismo tout court, naturalmente), Chaplin, Bresson, ecc. — che si può non tanto riconoscere Bazin, ma proprio attraverso il dispiegamento ordinato cronologicamente e tutto per la prima volta simultaneamente a disposizione dei testi, conoscerlo di più e meglio, misurare in modo minuzioso il progresso del suo lavoro sul loro, leggerlo nel suo diffondersi in sedi differenti, dettagliare le tappe di singoli avventi cruciali (Buñuel, ad esempio), o circoscrivere decisive riaccensioni, nuove incandescenze (Vigo, ad esempio).
Ciò vuol dire in larga parte confrontarsi con i film prediletti da Bazin, su cui egli scrive, poi talvolta in un nuovo luogo d’edizione riscrive, poi in un altro riscrive ancora, in articoli, precisa il curatore, ogni volta originali, che pure conservano, rideclinandolo, il nucleo della sua lettura individuante; i film, dunque, i giudizi, le posture critiche, ma anche i noti ripensamenti baziniani che dicono la libertà e la marcatura etica della sua pratica critica.
Infine Bazin può essere conosciuto meglio e di più, evidentemente, anche attraverso gli autori da lui non amati: è ovvio che Hitchcock, che significa da sempre la forma esemplare della distanza del critico di Angers dai turchi e dalla loro politique, è qui inaggirabile. E tuttavia gli Écrits, sottolinea ancora Joubert-Laurencin, dicono come questo rapporto ampiamente noto col grande regista sia stato sì sempre problematico ma anche davvero assai fitto, e come ora sia possibile studiarlo nella sua interezza: Bazin ha scritto su Hitchcock più di 30 contributi e convocato il suo cinema attraverso quasi 150 citazioni.
Potrei continuare a lungo e dire che quest’opera può essere letta, ogni volta per trovare un nuovo Bazin, lungo un gran numero di strade diverse: i jeunes turcs, appunto, ma ovviamente i grandi pensatori del suo tempo con cui si è misurato, i libri su cui ha scritto, o anche quello che ha detto, che so, sui singoli elementi espressivi — c’è, ad esempio, un numero significativo di testi in cui la questione del colore è centrale —, sul film che voleva realizzare (e su cui Joubert-Laurencin ha tra l’altro firmato, con Marianne Dautrey, un pregevole documentario, Bazin roman). Ma ancora, si possono leggere uno accanto all’altro i testi che, tra gli ultimi anni ’40 e Notte e nebbia (su cui scrive un testo per “L’Éducation nationale”, poi confluito in una delle raccolte postume), Bazin dedica ad alcuni film — di Jakubowska, di Aleksander Ford, di Radok — incentrati sulla persecuzione e sullo sterminio degli ebrei.
I miei appunti restano fitti, ma il mio spazio è finito: ho detto qualcosa, ho tralasciato molto, ho dimenticato o di sicuro mancato di rilevare elementi cruciali. Questo Bazin integrale, come tutti i grandi libri, richiede tempo e un lavoro da fare. È una sorta di smisurato diario di un pensiero in continuo divenire, di un enorme laboratorio in attività, di una pratica critica, dunque di una scrittura, tanto complessa quanto ineguagliabile.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Écrits complets, édition établie par H. Joubert-Laurencin, Éditions Macula, Paris 2018, 2 voll.