C’è una zona liminare tra la vita e la morte, l’inizio e la fine, che sospende lo spazio-tempo ordinario e favorisce il costituirsi di zone fluide e reversibili. È su queste zone che si apre e si chiude Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths di Iñárritu: la nascita di un neonato che “si rifiuta di venire al mondo e vuol tornare nel ventre materno perché questo mondo è una merda” e il coma finale del famoso giornalista e documentarista messicano Silverio, da quindici anni residente con la famiglia a Los Angeles. Questa fluidità si proietta in apertura e chiusura su un deserto, attraverso un’ombra che corre (inizio) o che trasvola (fine).

È il deserto come spazio reale, che divide Messico e Stati Uniti, popolato da file di poveri migranti. Ma è anche il deserto come metafora di una condizione umana che, impossibilitata a ritrovare il senso della propria vita tessendone un filo continuo e lineare, ritrova solo nella potenza immaginativa la possibilità di un uso creativo della vita stessa.

Una vita come perdita: dell’infanzia, dei sogni, delle occasioni, del tempo, dove “i fallimenti coincidono con il successo stesso”. Sono i tanti successi di Silverio che, tornando in Messico dopo aver ricevuto un prestigioso premio internazionale, scopre il caos che abita l’incompiutezza della sua vita, a partire dal fatto che quel successo ha comportato l’“aver trascurato i figli”, come gli rimprovera la moglie. Ma il ritorno in Messico attiva una potenza onirica ed illusoria – che fa il verso al Fellini di 8 ½  – che mette insieme proiezioni temporali ed immaginative sia personali che storiche.

Tra le prime ci sono la madre e il padre. Il dialogo con quest’ultimo, con Silverio adulto ma restituito nelle dimensioni di un bambino, è un momento tra i più intensi del film. Il padre gli riconsegna l’immagine di una vita che passa rapida senza che te ne accorgi, il cui significato è difficile da reperire (“La vita è un insieme di situazioni senza senso”), segnata da rimpianti e sensi di colpa. Ma in fondo padre e figlio, in un abbraccio intenso, riconoscono il loro reciproco essersi voluti bene sempre.

Tra le proiezioni di carattere storico immaginativamente più potenti vediamo quella con i giovani soldati della guerra Stati Uniti-Messico, o il Cortes e il massacro degli Indios, con il primo seduto su una piramide di cadaveri che poi si scoprono essere comparse di un set. O ancora il crollare a terra improvviso, davanti al Silverio sconcertato, di persone che – come gli viene detto – non sono né vivi né morti, sono semplicemente “scomparsi” (desaparecidos).

Ma l’alterazione immaginativa del reale come risposta alla crisi concerne anche il presente. Il litigio con l’amico, conduttore di una trasmissione televisiva di successo che Silverio diserta all’ultimo per non piegarsi a quell’insieme di banalità e luoghi comuni che vengono detti. Il dialogo tra i due durante un party è notevole: l’uno rinfaccia all’altro di essersi venduto ai soldi dei gringos, l’altro lo accusa di essere restato al servizio dei potentati locali. Ma c’è anche l’intimità ludica con la moglie: giocano, si inseguono, discutono. Ma si comprendono. Ed ancora la scoperta – tutta felliniana – di un femminile d’infanzia, dove sotto a un telo appare una donna procace con sulle tette due uova al tegamino, che suscitano il desiderio di suzione del bambino-adulto.

E poi i figli. La ragazza che studia a Boston e che vuole tornare in Messico, e a cui il padre dice, a bordo piscina, di volere il meglio per lei. Per sentirsi rispondere che “il meglio per me può non essere quello che è per te”. E il figlio maschio che gli racconta di aver portato con sé nella valigia, in occasione del trasferimento negli Stati Uniti, tre pesciolini che aveva nell’acquario. Arriveranno morti.

È proprio nella metro di Los Angeles – per sconfessare i figli che lo deridevano per non aver mai preso i mezzi pubblici nella città americana – con i tre pesciolini da poco acquistati per regalarli al figlio, che Silverio ha un infarto. Resterà sospeso tra la vita e la morte, si vedrà da fuori, in un finale che raccoglierà personaggi (la famiglia), situazioni (migranti messicani) e paesaggi (deserti) che hanno attraversato tutto il film.

La potenza di questa “falsa cronaca di una manciata di verità” sta nell’espressione di un sentimento  piuttosto che di un pensiero (come dice lo stesso Silverio). Il sentimento del passare inesorabile del tempo e dell’attraversamento continuo dello spazio alla ricerca di un “casa” danno forma al film. Intorno a ciò che è “casa” si svolge proprio, in arrivo all’aeroporto di Los Angeles, una delle scene più divertenti del film, con Silverio che rivendica – davanti al poliziotto statunitense di origine messicana che glielo nega – che quella (cioè gli Stati Uniti) è la sua casa.

Questa infinità tematica trova in una potenza immaginativa senza sintesi narrative, composta di ricordi, fantasie, sogni, allucinazioni e cinema, la sua forza espressiva. Il cinema di Iñárritu indebolisce qui il suo tratto estetizzante, esprimendo proprio attraverso lo sguardo intercessore e post-mortem di Silverio la lettura di un presente inafferrabile se non attraverso il manifestarsi di un caos di sentimenti che toglie ogni confine alla realtà. Costituendo così l’antidoto più efficace a chi quei confini pretende di porli illudendosi così di arginare il caos. Il caos non si argina, si compone, si esprime, si capta. E Iñárritu qui ci riesce.

Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths. Regia: Alejandro González Iñárritu; sceneggiatura: Alejandro G. Iñárritu, Nicolás Giacobone; interpreti: Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena Lamadrid, Iker Sanchez Solano, Andrés Almeida, Francisco Rubio; produzione: M Productions, Redrum; origine: Messico; durata: 174′; anno: 2022.

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