Artista è colei, o colui, che “crea” qualcosa – una tela dipinta, come quella riprodotta qui affianco, una scultura, una performance, un componimento musicale e così via – cioè quello che comunemente si chiama un’opera d’arte. Secondo questa visione l’artista è il soggetto dell’arte, mentre l’opera (in senso esteso, può essere un’opera anche un’esecuzione teatrale o musicale) è l’oggetto dell’arte. Alla base di questo dualismo artista-opera d’arte, c’è un presupposto, lo stesso presupposto di ogni dualismo: solo il soggetto è attivo, l’oggetto dell’attività artistica non è altro che appunto la cosa “creata” dall’ingegno dell’artista. Un corollario di questa visione, così diffusa da sembrare un’ovvietà, è che possa “creare” opere d’arte solo un particolare sottoinsieme degli esseri umani, quello composto dagli artisti, cioè quel particolare e ristretto insieme di persone dotate di genio o talento artistico.
Se ora però torniamo all’opera d’arte riprodotta qui sopra, il ritratto di Edmond de Belamy, questo confortante dualismo entra in crisi, in modo definitivo. Si tratta infatti di un ritratto che non è stato dipinto da un essere umano, bensì da un sistema di intelligenza artificiale, più in particolare da una GAN (Generative Adversarial Network). Alice Barale ha curato una interessantissima antologia, Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN (Jaca Book 2020) in cui raccoglie una serie di interventi teorici e descrittivi indispensabili per farsi una prima idea di questo tipo di arte. Perché indubitabilmente si tratta di arte. Se infatti non sapessimo che dietro questo ritratto non c’è una mano umana bensì una sofisticata rete neurale, nessuno si preoccuperebbe: ad alcuni questo ritratto piacerebbe, al punto di comprarlo ad una mostra (è stato venduto alla cifra per niente disprezzabile di 432.500 dollari), ad altri non sarebbe piaciuto, come capita sempre. È solo quando veniamo a sapere che si tratta di intelligenza artificiale che cominciano i problemi, i nostri problemi. Scartiamo subito il riflesso difensivo più scontato di chi dirà che l’algoritmo che l’ha dipinto è stato programmato, quindi in realtà c’è sempre un essere umano dietro questi presunti oggetti “artistici”. Non è così semplice, perché propriamente una GAN non è programmata da nessuno; si tratta piuttosto di un sistema in cui due reti neurali – una che contiene una serie di dati riferimento, l’altra che approssima delle riproduzioni sempre più simili a questi – “competono” fra loro.
Così, ad esempio, una GAN addestrata su fotografie di persone realmente esistenti può generare nuove fotografie che appaiono assolutamente realistiche, come la fotografia qui sotto. Questa ragazza non esiste, eppure la foto ritrae una ragazza che potrebbe benissimo esistere da qualche parte del mondo. Una GAN, in pratica, simula quello che fa qualunque artista umano, che non “crea” mai da zero, ma parte sempre da un qualche modello, ad esempio quello dell’ambiente culturale in cui comincia a lavorare su cui poi innesta delle variazioni più o meno radicali. Per di più nessuno sa, e tantomeno l’artista, quale sia il meccanismo neuronale che permette di “creare” un’opera d’arte. Nessuno sa, cioè, quale sia l’algoritmo cerebrale che permette all’artista di “creare” le sue opere. È solo per un pregiudizio umanistico che crediamo che quello che succede dentro un cervello sia diverso da quello che succede con un algoritmo. L’arte GAN, allora, mostra che l’opera di fatto non ha più bisogno dell’artista. O meglio, mostra qualcosa che si è sempre saputo, che l’intenzionalità dell’artista non è necessaria per rendere conto dell’esistenza delle opere d’arte.
Se ogni processo creativo è sempre anche una perdita temporanea di controllo da parte dell’artista – un incontro tra l’intenzionalità umana e la sorpresa di quello che l’opera concretamente diviene –, le nuove forme di arte che si stanno sviluppando grazie all’intelligenza artificiale portano la consapevolezza di questo momento al centro dell’attenzione non solo dell’artista, ma anche del pubblico, e trasformano il mezzo del fare artistico in un vero e proprio “partner”, dando vita a forme del tutto inedite di interazione. «Cambia così anche l’immagine dell’artista, che abdica in un certo senso alla sua unicità e diventa parte di un processo più ampio» (Barale 2020, p. 9).
Tuttavia se quest’arte mette in questione la posizione privilegiata dell’artista (con tutte le conseguenze, in primo luogo economiche, che ne derivano), in realtà non mette affatto in questione l’operare artistico. Solo che questo operare non è più il risultato di un’azione esclusivamente o prevalentemente umana, bensì degli effetti imprevedibili delle interazioni fra esseri umani e sistemi neurali come la GAN. Anche questa, si dirà, non è una vera novità, perché da sempre il risultato artistico è il risultato di una relazione non programmabile a priori fra gesto umano e materiale “artistico”, come ad esempio l’imprevedibile effetto cromatico di un certo pigmento su una superficie pittorica. In questo modo dagli «artefatti, dagli errori e dalle incongruenze della GAN, l’artista impara un nuovo modo di disegnare, e vede riapparire qualcosa […] che non sperava di trovare» (ivi, p. 12).
Ma perché limitare l’uso di queste tecniche solo all’artista? In realtà quello che queste tecniche mettono in luce è piuttosto che l’artista non serve più: non è più necessario, cioè, una categoria circoscritta di persone che “creano” opere d’arte: «Al centro di questo nuovo tipo di arte non c’è dunque l’opera come oggetto, ma il processo artistico stesso, come interazione sempre inconclusa tra uomo e macchina» (ivi, p. 12). D’altronde non è sempre stato il sogno delle avanguardie far uscire l’arte dai musei per tracimare nella vita? Si tratta di portare questa aspirazione fino alle sue estreme conseguenze: si tratta infine di liberare l’arte dagli stessi artisti. Un progetto, come detto, antico come l’arte stessa, perché fin dall’inizio l’operare artistico è stato mediato da strumenti tecnici. In effetti già le mani impresse nella grotta di Lascaux sono uno strumento tecnico. Già nel Paleolitico, allora, l’arte umana era un’arte artificiale, un’arte ibridata fra umano e tecnologia, un’arte in fondo già più che umana. In questo senso l’arte è sempre stata artificiale. Il ritratto di Edmond de Belamy, quindi, non è che l’ultima manifestazione di una tendenza da sempre presente nel campo artistico. Si tratta di liberare questa possibilità, e così, liberando l’arte dell’artista, si aprono impensate possibilità di pensiero e di esperienza:
Proprio il carattere di “black box” delle GAN conferisce loro un insostituibile potenziale critico: le rende capaci di sottrarsi alle esigenze di quel che è già previsto (dal mercato, dalla cultura, dai nostri pregiudizi) e di accompagnare l’artista nella ricerca di nuove e significative somiglianze. È questa forza giocosamente critica – “avversaria” e “generativa” al tempo stesso – che ritroviamo nelle GAN e nelle loro strane immagini. Il loro mondo “fluido” in cui tutto è “connesso” – alberi, nuvole e funghi – apre nuove connessioni per noi, ci sottrae al nostro isolamento e ci spinge verso qualcosa, fuori, che ancora aspetta di essere esplorato (ivi, p. 18).
Barale continua a parlare solo di artisti, ma come detto non c’è alcuna ragione di limitare l’impatto della GAN solo a loro. L’opera d’arte è degli artisti e dei mercanti d’arte, ma l’operare artistico no, non c’è nessuna ragione per continuare a pensare che esista uno spazio delimitato della vita umana chiamato “arte”. Si tratta piuttosto di portare questa tendenza fino alle sue estreme conseguenze, in modo che finalmente arte e vita possano coincidere. Perché è questa la posta in gioco, immaginare un’arte che non sia imprigionata nei musei e nelle gallerie d’arte, un’arte che pervada l’intera esistenza umana. Un’arte del genere, evidentemente, non è più “artistica”, così come una vita così commista all’arte del genere non sarebbe più nemmeno “prosaica”. Come scrive Giorgio Agamben in Creazione e anarchia, «evidentemente ciò che dev’essere abolito è l’opera, ma altrettanto evidente è che l’opera d’arte deve essere abolita in nome di qualcosa che, nella stessa arte, va al di là dell’opera ed esige di essere realizzato non in un’opera, bensì nella vita (i situazionisti intendevano coerentemente produrre non opere, ma situazioni)» (Agamben 2017, p. 12).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Neri Pozza, Vicenza 2017.
Alice Barale, a cura di, Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN, Jaca Book, Milano 2020.