Con la pubblicazione dell’ormai classico saggio di Alfred Gell Arte e agency, curato in modo impeccabile e introdotto da Chiara Cappelletto e tradotto da Gilda Policastro, Raffaello Cortina colma un’importante lacuna nel panorama editoriale italiano. Gell ha rappresentato una tra le voci più autorevoli e innovative nell’ambito delle ricerche di antropologia culturale dedicate al campo dell’arte. La novità del contributo dato da Gell alla definizione del ruolo delle arti nel quadro di una comprensione sur terrain dell’essere umano è testimoniata anche dalla prestigiosa postfazione scritta da Carlo Severi, una tra le voci più autorevoli sull’antropologia dell’arte. Proprio un ideale confronto tra il profilo scientifico di Gell e l’ascendenza accademica di Severi aiuta a capire la portata della proposta del primo. Severi è uno tra i più originali allievi di Claude Lévi-Strauss. Coerentemente con il suo approccio strutturalista, quest’ultimo propone un lavoro di decifrazione dei codici riconoscibili nelle diverse pratiche artistiche e, in un celebre saggio, propone di concepire «l’opera d’arte» – termine che naturalmente è da sempre controverso per gli antropologi – a partire dalla sua «efficacia simbolica». Questo paradigma ha tra l’altro anticipato e, per così dire, foraggiato una parte della successiva semiotica dell’arte.

Gell non tenta una revisione ma una vera e propria alternativa a questo approccio. Mi si consenta di dire che la motivazione da cui scaturisce un distacco così netto da un paradigma teorico tanto autorevole, insieme alla formulazione di un paradigma nuovo, attiene tanto a una questione estetica almeno quanto riguarda una questione antropologica. Non è un caso, forse, se l’esigenza di tradurre e far conoscere al pubblico italiano questo saggio, la cui prima edizione in lingua originale data ormai 1998, sia curata da una studiosa di estetica. Passa attraverso un’interrogazione estetica il ripensamento dei presupposti teorici per cui l’antropologia culturale può occuparsi di arte e per cui quest’ultima costituisce un oggetto di ricerca significativo per l’antropologia. Si potrebbe dire, in sintesi, che l’antropologia dell’arte di Gell è una risposta estetica all’ipoteca pan-semiotica dell’approccio strutturalista di Lévi-Strauss. Com’è fatto notare in particolare da Severi nella postfazione, il decorso della malattia ha costretto Gell a concludere rapidamente il processo di scrittura, forse non ragionando fino in fondo sull’architettura interna di un progetto così ambizioso e facendo spesso appello alle proprie risorse di scrittore ispirato dallo «spirit of comedy» (Gell 2021, p. 377), da un “tono comico” che non voleva essere puro gusto dell’intrattenimento, ma una capacità di coinvolgere il lettore in un processo di pensiero scevro da accademismi e pedanterie. Purtuttavia, l’impresa dell’antropologo ha richiesto una ridefinizione profonda delle categorie più adeguate a produrre un discorso antropologico sull’arte.

Per prima cosa, come si accennava poco sopra, Gell rifiuta di assumere come ovvia e scontata una categoria che, ben oltre l’estetica, occupa il centro di qualsiasi pensiero, e perfino del cosiddetto senso comune, a proposito dell’arte. Mi sto riferendo alla categoria di creazione artistica e a tutto il correlato di concetti che a essa si legano: artista/autore/creatore, opera, originalità e così via discorrendo. Chi ci dice, in fondo, che lo sciamano di cui parla già Lévi-Strauss sia, anche solo parzialmente, riconducibile alla figura di un artista? Ma, soprattutto, chi ci dice che, in assenza di una simile categoria e dei suoi correlati, non si dia qualcosa di indubbiamente riconducibile a un’esperienza estetica? La seconda è, in realtà, la questione più importante, almeno se giudichiamo il contributo di Gell dal punto di vista della filosofia. Stando alla prima, infatti, potremmo ancora scambiare questa antropologia dell’arte come un esito tardo dell’ermeneutica e della sua critica ai presupposti storici dell’estetica moderna: nascita del museo, accento sull’importanza del genio, isolamento dell’opera d’arte dal suo contesto culturale e così via discorrendo.

Si può ben parlare di artisti e di destinatari nel contesto dell’antropologia di Gell, come fa egli stesso per primo quando si dà il caso. Occorre però chiarire i termini per cui lo si fa. In altre parole, bisogna capire come un dispositivo di agenti lato sensu artistici modula e plasma in modo peculiare un nucleo, di cui, andando un passo oltre Gell, suggerirei che si tratta di una vera e propria invariante estetica dell’essere umano. Questa invariante riguarda la capacità di percepire nel mondo “indici” di significatività delle cose, ovvero di produrli intenzionalmente. Nell’esperienza estetica si ritrovano dunque, secondo lo schema qui proposto, “artisti” o più propriamente “artefici” dell’indice (sia naturali sia artificiali) e “destinatari” del medesimo. Va da sé che, nel caso ad esempio di un fenomeno naturale interpretato come manifestazione meravigliosa di alcunché di soprannaturale, è in realtà il destinatario ad avere una priorità, se non altro cronologica, sull’artefice, dal momento che è l’attenzione del prima a investire il secondo del suo carattere di indice.

È alla possibilità, che può essere operata da agenti diversi, di collegare all’indice un’immagine che Gell chiama “prototipo” e che agisce nel modo seguente sull’indice e sull’esperienza che ne facciamo: «C’è una specie di agency abdotta dall’indice, così che il prototipo è considerato agente in relazione all’indice (causando, per esempio, l’aspetto che in effetti ha)» (ivi, p. 39). Si possono trarre due conclusioni, di estremo rilievo filosofico, da quanto scrive Gell. La prima riguarda la storia delle immagini e del loro trattamento da parte della filosofia, che risale almeno a Platone. L’antropologia dell’arte di Gell ci dà qui conferma che l’immagine, a dispetto di quanto viene detto nel famoso Libro X della Repubblica, non è una copia delle cose. L’immagine non si riferisce ad alcunché di statico e fisso come una cosa, un ente pienamente disponibile nella sua apparenza, se non addirittura nella sua essenza, nel mondo. Al contrario, l’immagine in quanto prototipo non rappresenta un oggetto, ma organizza un riferimento al mondo, più o meno aperto o chiuso a seconda della disposizione (cognitiva, affettiva o pratica) del soggetto.

L’antropologia dell’arte di Gell, e vengo così al secondo motivo del suo interesse, si rifiuta di concepire l’estetico secondo categorie preconcette o idées reçues non elaborate o non ricondotte al loro significato autentico: bellezza, ornamento o altre nozioni, anche molto popolari negli studi antropologici ed etnografici, non trovano qui asilo senza una preliminare verifica critica. L’esperienza avrebbe in effetti a che fare più originariamente con l’atteggiamento mentale che accompagna l’individuazione e l’inserzione di indici nel processo d’esperienza. Si tratta dell’abduzione, quel modo (teorizzato per la prima volta da Peirce) di trarre inferenze su stati di cose passando dal particolare al particolare – ad esempio: “Vedo fumo: la casa brucia” – la cui intima connessione con la creatività e con l’esperienza estetica era già stata messa in luca da Emilio Garroni e Umberto Eco. È qui, in una matrice kantiana, da sempre ripensata da Garroni e infine ripresa anche da Eco, dell’esperienza estetica che possiamo ritrovare i fondamenti di un pensiero filosofico sull’arte e sui processi creativi in genere con cui non solo l’antropologia di Gell può dialogare, ma che può stimolare ad affrontare nuovi problemi, come quelli indicati dallo stesso antropologo britannico – ad esempio la questione della mente estesa e della comunicazione tra menti – o da altri antropologi, come Ingold, teorico dell’esperienza come making o Dissanayake, teorica del making special come origine primitiva del fare artistico all’interno dei processi di care giving tra madre e prole.

Riferimenti bibliografici
E. Dissanayake, L’infanzia dell’estetica. L’origine evolutiva delle pratiche artistiche, a cura di M. Portera, Mimesis, Milano 2015.
U. Eco, Kant e l’ornitorinco, La Nave di Teseo, Milano 2016.
E. Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2010.
T. Ingold, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, Raffaello Cortina, Milano 2016.

Alfred Gell, Arte e agency. Una teoria antropologica, Raffaello Cortina, Milano 2021.  

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