Per chi si è interessato di estetica negli ultimi anni, specialmente se ha frequentato l’Università a Roma, le tesi di Emilio Garroni sono familiari e assimilate, anche quando non si è stati allievi diretti, e a volte persino quando non si sono letti effettivamente tutti i suoi testi. Già questa circostanza rende l’idea dell’importanza del suo pensiero e anche della difficoltà di considerarlo con uno sguardo nuovo, diretto e libero da quello che già si sa o si pensa di sapere. È quello che ho tentato di fare rileggendo uno dei suoi libri più importanti, Estetica. Uno sguardo-attraverso, pubblicato originariamente nel 1992 e appena riedito da Castelvecchi con una introduzione di Stefano Velotti. Ma nel fallimento già scritto di questo tentativo – spostando la questione dal punto di vista esistenziale a quello più generale, epistemico – sta già in fondo il senso del titolo e del centro teorico del libro di Garroni, che riflette appunto sulla possibilità da parte di noi umani di osservare «da fuori» le esperienze in cui siamo immersi.
Lo «sguardo-attraverso» del titolo di questo libro, unito da un trattino che l’autore tiene a mettere in evidenza e che rimanda al guardare-attraverso di Wittgenstein, descrive infatti un guardare e un pensare criticamente che si pone nel mezzo di un’antinomia, nel mezzo di una tensione tra due diversi modelli che tuttavia non può e non deve essere risolta. Da una parte, c’è il modello che propone la possibilità di uno sguardo sulle cose che arriva «da nessun luogo», che sarebbe dunque in grado di vederle da fuori, «così come sono». Dall’altra, il modello che descrive l’umano come un ente non solo immerso, ma costretto e incapsulato nel suo ambiente come un insetto intrappolato nell’ambra. Se sembra più ovvio rifiutare come irrealistica l’eventualità di uno sguardo privo di filtro, per Garroni non è accettabile nemmeno il secondo modello, quello che ci descrive come del tutto riducibili allo sguardo semplice di chi è sempre e irrimediabilmente situato nel suo habitat. E la prova di questa circostanza è il fatto che siamo qui, appunto, a parlarne, a scriverne. Facciamo una determinata, singolare esperienza (ci siamo dentro) e contemporaneamente ci interroghiamo su quell’esperienza e sull’esperienza in genere («come se» ne fossimo fuori).
La proposta di Garroni, che già nella mia breve ricostruzione mostra la sua radice fortemente kantiana, è dunque quella di abitare questo paradosso che è d’altra parte il nostro costitutivo modo di pensare:
È nello sforzo di comprensione – che sorge coll’interrogarci sul sentire, il fare, il conoscere – che il semplice guardare si mostra come possibile solo alla condizione di un guardare-attraverso. Così che il guardare-attraverso […] condiziona e costituisce propriamente l’ente che siamo e il nostro guardare. E questo è un paradosso, anzi: il tipico paradosso della filosofia (Garroni 2020, p. 34).
L’umano nel suo tipico stare al mondo non può dunque risolvere questa contraddizione, poiché si costituisce al suo interno, anzi è questa stessa contraddizione: è dentro, ma si osserva, si volge a comprendere la sua esperienza in genere come se la guardasse da fuori. Soltanto così è possibile risalire dalla esperienza particolare, singolare, alla riflessione sulle condizioni della esperienza in genere.
Lo sforzo di Garroni nel mantenere operante la tensione tra la concretezza e la singolarità della nostra esperienza e lo sfondo indefinito e generale che la rende possibile è propriamente il compito di una filosofia critica. E tale statuto paradossale è ciò che rende la prosa di questo libro – in cui Garroni si confronta con autori quali Croce e Gentile, Hegel e Heidegger, Burke e Batteux, oltre che con il pensiero a lui contemporaneo – una prosa rigorosa ma spesso difficile, trattenuta da una continua esigenza di controllo. Tuttavia, provando a liberarsi sia da quello che già sappiamo del pensiero di Garroni e forse rinunciando al rigore della scrittura, vorrei far emergere soprattutto due elementi importanti e attuali.
In primo luogo, l’operazione che Garroni compie rispetto all’estetica, qualificandola una volta per tutte come compimento di una prospettiva critica (esperienza in cui cioè, lo abbiamo già detto, siamo in grado di metterci in contatto con la nostra possibilità di esperienza in genere), può aiutarci a sgomberare il campo da qualsiasi equivoco sulla separazione tra discipline, un problema che oggi sembra volersi superare, ma che in realtà persiste. E che, aggiungo, è particolarmente dannoso nella nostra contemporaneità, nel momento in cui la filosofia è chiamata a confrontarsi con un mondo segnato dalla crisi socio-ambientale e da un assetto che richiede l’incontro e la collaborazione tra i diversi saperi.
Definire l’estetica «filosofia non speciale», non determinata e limitata alla classe di oggetti di cui si occuperebbe, assegna invece al punto di vista estetico un’ampiezza e una capacità di contatto con ciò che Garroni chiama il senso e le sue condizioni, e che potremmo qualificare – da questo momento in poi mi allontano dal libro, almeno dal punto di vista terminologico – come l’esperienza del funzionamento della natura umana e dei suoi meccanismi psichici. Se l’estetica non è teoria delle arti, è anche perché Garroni denuncia come un’illusione l’idea di ritrovare già presenti e come depositati in una classe di oggetti dei tratti comuni che vi scopriamo invece solo après coup. Viene così disinnescata anche la ricerca affannosa e frustrante della definizione di arte, quella che per esempio ha impegnato a lungo la filosofia analitica angloamericana, come nota anche Velotti nella sua introduzione.
In secondo luogo, lo sguardo-attraverso di cui Garroni scrive mette in questione, come viene sottolineato anche nelle pagine introduttive, una delle questioni filosofiche più diffuse e scottanti del nostro tempo, quella di un possibile sguardo diretto verso «le cose così come sono» che i diversi realismi contemporanei, dopo l’ermeneutica, corteggiano e ricercano in vario modo. Il pensiero di Garroni ci aiuta a resistere all’idea a volte allettante, ma anche irrealistica e semplificante che sia possibile per l’umano un «mero guardare». Alla convincente descrizione della condizione iniziale della natura umana offerta da questo libro si potrebbe però forse aggiungere una svolta, un cambio paradossale di rotta proprio a partire dalla antinomia che Garroni vuole proporre. Usando il pensiero di un autore molto lontano da Garroni come Deleuze – citato a sorpresa in questo libro proprio per quel che riguarda la sua definizione di paradosso come esposizione della genesi della contraddizione (ivi, p. 37) – si può forse tentare un passo avanti (su cui ovviamente, lo sottolineo, Garroni non sarebbe d’accordo).
Quando Deleuze parla infatti di immanenza, di un piano di coesistenza tra enti ed essere in cui non è prevista alcuna trascendenza, ne parla come di un esito, un divenire-altro conquistato contro una tendenza umana verso la direzione opposta. E forse l’esperienza dell’arte può essere qualificata come una delle situazioni in cui sperimentiamo la possibilità – in modo puntuale e sempre votato al fallimento, sempre da riiniziare – di un incontro paradossale con il reale in sé, non caratterizzato dal ritorno a uno sguardo originario, quanto piuttosto come momento in cui superiamo il dualismo che tuttavia ci costituisce.
Emilio Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Castelvecchi, Roma 2020.