Quanto spesso castriamo il desiderio per paura di disattendere una moralità che poi scopriamo essere sociale e non individuale? Che quella moralità l’abbiamo semplicemente introiettata anziché maturata interiormente? Spesso il desiderio atterrisce, perché è proprio ciò che ci mette con le spalle al muro e ci impone di guardarci allo specchio, sondando antri di noi che forse non avremmo mai voluto scoprire.

Eppure, per la magnetica protagonista de L’Arte della Gioia (2024) – una serie diretta da Valeria Golino e divisa in due parti – non funziona affatto così. Al contrario, lei il desiderio lo rincorre inesaustamente e non smette di farlo fino a quando non riesce ad afferrarlo fra le sue mani fameliche e a goderne.

Selvaggia come la terra in cui è nata, Modesta (un’impeccabile Tecla Insolia) vive la vita con recalcitrante ribellione sin dall’infanzia, opponendosi a qualsiasi regola esistente e praticando una libertà che lascia sgomenti e attoniti coloro che le gravitano attorno. Insaziabile di vita, ingorda di conoscenza, ma soprattutto di gioia, Modesta è tale solo di nome e di origini, ma non di certo nelle ambizioni. Ciò da cui è animata è infatti il desiderio di costruire le proprie regole e il proprio microcosmo, è la necessità di riscatto in una società patriarcale e oppressiva che vorrebbe cucirle addosso dei ruoli che non le appartengono e che non vestirà mai bene.

Se il convento dove viene accolta dopo essere rimasta orfana è un limbo transitorio, una zona grigia resa tale anche dalla fotografia che vira verso la desaturazione cromatica e dai costumi (le novizie indossano abiti grigi), il palazzo dei Brandiforti, in cui arriva dopo l’esperienza del noviziato, rappresenta l’esatto contraltare della fatiscente baracca in cui la protagonista abitava da bambina: il “nulla” rappresentato dai mattoni spogli dell’abitazione dell’infanzia e dalla polvere ambrata del terriccio che la circondava – e che ricopriva non solo i vestiti e il corpo di Modesta, ma la sua intera identità, contaminandola fino a rendere nulla e polvere anche lei – diventa “tutto” tra lo sfarzo del palazzo, dove non c’è spazio per il vuoto, la povertà, o per stracci che pretendano di farsi vesti. 

Ed è dentro questa dimensione piena del palazzo che Modesta raggiunge anche lei, per osmosi col luogo, una ricchezza che è sia culturale – attraverso, ad esempio, l’ingorda lettura dei poeti maledetti – sia economico-sociale. Tra impeti maldestri ed errori, infatti, Modesta riesce a diventare Principessa, prendendo in sposo “La Cosa”, il Principe deforme tenuto nascosto all’ultimo piano del palazzo, con cui la protagonista riesce ad instaurare un legame perché in qualche modo partecipe della sua stessa mostruosità. Entrambi alieni e reietti, temuti dalla società per il loro essere “altro”, trovano un modo di comunicare basato su istinti primordiali, animali – il tatto fra tutti –, dando vita ad un’affinità, ai più inspiegabile, che verrà suggellata col matrimonio e che scatenerà un delirium mentis irreversibile nella Principessa Gaia (Valeria Bruni Tedeschi), madre pentita della “Cosa”.

È dunque il modo in cui il corpo di Modesta attraversa gli spazi a creare caos e a rovesciare ogni prospettiva, proprio come mostra un movimento vorticoso di macchina in un preciso momento della narrazione. E questo Golino ce lo spiega ogni volta che può attraverso uno sguardo che non è mai sessualizzante, ma che si approssima il più possibile alla protagonista per catturare da vicino ciò che la rende autenticamente se stessa: la carne, appunto. E allora il dettaglio di un paio di labbra voluttuose, di una mano delicata ma esperta, di un seno reso turgido dal piacere, non è dettato dal voyeurismo a cui il quasi onnipresente male gaze ci ha abituato, ma risponde all’esigenza di ricostruire, attraverso l’isolamento delle singole parti, quel tutto che è il corpo di Modesta, che costituisce il fulcro della sua identità e che guida ogni sua azione.

Modesta è puro corpo e in esso risiede il suo potere, che si espleta innanzitutto nella deliberata scelta di farne ciò che vuole, compiendo in tal modo un atto fortemente rivoluzionario ed emancipatorio per i suoi tempi, e che poi utilizza per far fronte ad un altro tipo di potere, istituzionale e patriarcale, contro cui è destinata a scontrarsi di continuo ma di fronte al quale non vacilla mai. 

All’interno del palazzo – in cui irrompe come il misterioso visitatore pasoliniano di Teorema (1968), sconvolgendo attraverso il sesso ogni precario ordine esistente – sarà soprattutto Beatrice (Alma Noce) ad essere risucchiata da quel travolgente uragano di passione e disordine che è Modesta. L’amore omosessuale tra le due donne, però, non viene mai oggettivato dallo sguardo di Golino. Al contrario, nelle scene di sesso la regista ricorre spesso a delle carrellate all’indietro che impongono agli spettatori di fare altrettanto, cioè di arretrare anziché desiderare spasmodicamente di osservare da vicino l’amplesso. Questa scelta non viene solo compiuta durante le scene di sesso lesbico – che al cinema, e nei media in generale, è oggetto di una feticizzazione aberrante – ma viene adottata anche durante i rapporti sessuali che Modesta ha con gli uomini. Questo però è solo uno dei dispositivi tipici della regia femminile – e femminista – che è possibile rintracciare all’interno dell’opera.

Notevole è anche l’utilizzo della voce fuori campo, un altro dispositivo del cinema femminile a cui Golino conferisce una funzione narrativa – che riecheggia anche l’origine letteraria della storia – ma soprattutto confessionale, riportando dentro la dimensione della spiritualità il debordante rigurgito di eventi scabrosi e inenarrabili che invece Modesta intende fieramente raccontare. La sua voce off, che spesso, poi, si ricongiunge con l’inquadratura corrispondente da cui proviene, tesse le trame del passato, del presente e del futuro, rompendo le coordinate spazio-temporali della narrazione lineare, cui dà forza il montaggio, che tiene insieme queste tre dimensioni del tempo attraverso flashback, momenti onirici, apparizioni fantasmatiche.

Il suo sguardo in camera, deciso, feroce, e a tratti vulnerabile, non esita mai nell’interpellare direttamente lo spettatore, chiedendogli la sospensione del giudizio e stabilendo una forte triangolazione che raccorda diversi sguardi: quello registico, quello della protagonista e quello spettatoriale. I suoi occhi color della terra pungolano infatti soprattutto le spettatrici e le pongono in una posizione di confronto frontale con se stesse. Le sue lacrime sono spilli e penetrano in profondità dell’epidermide e dell’anima, proprio come quegli stessi spilli che è costretta a conficcarsi al centro del petto, obbligata da Madre Leonora ad espiare i suoi peccati. Proverà persino a spegnere la sua passione e a lavarsi via le colpe con l’acqua, ma quella in cui la protagonista affonda è l’acqua di una fonte battesimale da cui riemerge più terrena di prima. Non purificata e riunita con Dio ma ancor più peccaminosa: “Loro avevano Dio. Io volevo la vita”. Le due tensioni opposte, l’evanescenza dello spirito e la materialità del corpo, non sono dunque mai conciliabili in Modesta se non nel desiderio stesso, l’unica e più alta forma di spiritualità che è in grado di praticare.

Perché se c’è una cosa che ci ha insegnato la Modesta di Sapienza-Golino è che nella soddisfazione del desiderio si scoprono una gioia e una libertà che non sono promosse dal desiderio stesso, bensì dall’esperienza laicamente divina di incontrare profondamente il nostro autentico io attraverso di esso. L’arte della gioia non sta dunque nella sempiterna felicità, ma si pratica e si raggiunge attraverso i patimenti più intensi pur di rimanere sempre integri e fedeli a se stessi. Ed è quello che ci mostra ancora lo sguardo che ci rivolge Modesta a chiusura del film – in una scena memore del finale de I 400 colpi (1959) di Truffaut – in cui la protagonista, di fronte al mare ceruleo di Catania, si volta verso di noi dandoci per l’ultima volta accesso, attraverso le sue iridi fangose, a tutto ciò che ha strappato a questa vita con frustrazione, entusiasmo e determinazione. Quelle stesse iridi che, al di là delle conquiste passate e future, si porteranno sempre e comunque dietro il sapore ineluttabile della morte.

Riferimenti bibliografici
V. Cammarata, Breve storia femminile dello sguardo, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2014.
V. Pravadelli, Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici, Laterza, Roma 2014.

L’Arte della Gioia. Regia: Valeria Golino, Nicolangelo Germini; sceneggiatura: Valeria Golino, Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella, Stefano Sardo; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Giogiò Franchini; musica: Tóti Guðnason; interpreti: Tecla Insolia, Jasmine Trinca, Valeria Bruni Tedeschi, Guido Caprino, Alma Noce, Giovanni Bagnasco, Giuseppe Spata, Eleonora De Luca; produzione: Sky Studios, HT Film; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia; durata: 316′; anno: 2024.

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