Le similitudini tra romanzi e serie televisive sono molte, dovute in parte al regime estetico di queste forme, in parte a ragioni storiche che riguardano la loro nascita e la loro trasformazione. Per alcune serie tv si è parlato di visual novel e molte arcate romanzesche divengono serie: i romanzi di Zuckerman di Roth (1978-2001), 1q84 di Murakami, la Torre nera di King, su fino alla Commedia umana, travalicano le trilogie diffuse nel romanzo highbrow (Holt, New York, K.). Analogie riguardano anche la topologia del testo. Per molto tempo la significatività di un racconto – di un racconto che voleva andare oltre l’intrattenimento o la descrizione, fornendo un di più informativo – è stata legata a ciò che Wellek chiamava «il particolare», cioè un elemento in posizione intermedia tra il generale – ciò che appartiene alla sfera del concetto – e l’irrimediabile singolarità dell’individuale. Uno spazio di mediazione reso celebre da Lukács con il nome di «tipico»: non il mediano, ma il risultato della dialettica tra individuale e generale che trascende il primo e incarna il secondo, spesso con figure lontane dal «medio» (es., Vautrin). È una forma di mediazione che si basa sull’idea di intensionalità, cioè sulla fiducia che un aspetto del nostro mondo permetta di illuminarne altri: così la vita della moglie di un medico di provincia o le vicissitudini di un industriale ebreo di Newark dánno accesso alla complessità del nostro reale. È un tratto tipico del novel utilizzato anche da numerose serie tv: Breaking Bad (2008-2013), I Sopranos (1999-2007), Mr. Robot (2015 – in corso).
In tempi recenti, molti romanzieri si sono dedicati alla costruzione di mondi d’invenzione che si basano sull’estensionalità. Tanto le rappresentazioni intensive quanto quelle estensive creano una coerenza interna alla narrazione e suggeriscono la completezza del mondo d’invenzione. Ma lo fanno con tecniche diverse: un’opera intensiva si regge sul principio modernista dell’epifania – l’idea che un momento, una situazione, possano descrivere compiutamente il tutto –, una estensiva invece si basa sull’accumulo. È un tratto che rimanda alle origini del romanzo (Rabelais e Cervantes in modi diversi compongono le loro opere aggregando elementi disparati), ma che oggi, con Europe Central di Vollman, Underworld di DeLillo, Infinite Jest di Wallace, 4321 di Auster, assume una nuova importanza. Il perché di tale recupero esula dallo scopo di questo intervento, ma è interessante che alcune serie televisive adottino lo stesso procedimento.
In particolare The Wire è una serie che fa dell’estensività il suo punto focale. Non è l’unica: The Booth at the End mostra la vita di un gruppo di persone che s’intreccia al tavolo che dà il titolo alla serie, dove un moderno Mefistofele promette di esaudire i desideri di chi lo raggiunge in cambio di piccoli “favori”. Le molte vicende si scoprono intrecciate: pur non uscendo mai dal diner, la serie rimanda al mondo all’esterno, alla sua complessità. Ma la portata di The Booth at the End (2010-2012) – peraltro durata solo due stagioni – è ancora limitata. Invece molte serie antologiche (Black Mirror, Love, Death & Robots o Easy) tendono a rappresentare diversi volti della realtà, ma l’assenza di un filo conduttore, pur aumentandone per certi versi il potere euristico (non c’è bisogno di seguire gli stessi personaggi; è possibile limitarsi a ciò che è davvero interessante eliminando i riempitivi), dà una visione frammentata del mondo (anche perché spesso i singoli episodi riferiscono a diversi mondi d’invenzione, riducendo la coerenza semantica complessiva della serie).
Ideata da David Simon, The Wire – cinque stagioni e sessanta episodi – è latu sensu un procedurale. Latu sensu perché la serie fonde diversi generi: il procedurale riguarda le indagini di un gruppo di poliziotti sul traffico di droga a Baltimora, ma si dà ampio spazio alle organizzazioni criminali (qui diventa crime story) e alla vita quotidiana del ghetto, come una serie local. Man mano, lo sguardo degli sceneggiatori tocca le ramificazioni del traffico di droga, le sue intersezioni con una società segnata da disoccupazione e crollo industriale (nella seconda stagione si guarda perciò al porto di Baltimora); la politica cittadina, i problemi dell’istruzione nelle zone a basso reddito; l’informazione locale. Accanto agli aspetti socio-politici ci sono i personaggi, le loro vicissitudini. La serie così diventa un collettore di istanze diverse, come accaduto ai romanzi di genere (penso al noir, ma anche alla fantascienza prodotta negli anni sessanta-settanta da Vonnegut, Sheckley o Ballard, dove i temi sociali hanno una centralità inedita).
Dunque, accumulo di forme: come il romanzo, The Wire ingloba linguaggi diversi (generi televisivi, ma anche altre forme di comunicazione come giornalismo d’inchiesta e romanzo). E poi accumulo di personaggi, nei quali la differenza tra protagonisti e comprimari tende a sfumare. Una figura può apparire in modo prominente e poi svanire; altre mostrate di sfuggita assumono un ruolo centrale. L’impostazione corale è relativamente comune nelle serie, che accumulando episodi possono approfondire la vita di più personaggi, come in NYPD Blue (1993-2005). Mad Men (2007-2015) racconta la vita di un gruppo di persone, ma esse abitano lo stesso ambiente, non superano la dozzina in otto stagioni e la distinzione fra protagonisti e comprimari (e fra trame principali e secondarie) è salda. Kecia D. Thompson ha contato sessantacinque personaggi ai quali viene assegnato in The Wire un full role; per Fredric Jameson ogni stagione presenta oltre cento personaggi. Moltiplicando le figure si moltiplicano le trame che spesso violano i confini della puntata o della stagione. È comune che una vicenda si inabissi per diversi episodi e poi, d’improvviso, ritorni al centro: la forma seriale consente una distensione narrativa difficile nel cinema ma comune nel romanzo, basato su un «tempo lungo» di fruizione disteso su giorni, a volte mesi, ma non è solo una questione di quantità.
L’aspetto «etnografico», come l’ha definito Linda Williams, della narrazione, ossia l’accuratezza descrittiva – Simon ha profonda coscienza delle dinamiche di Baltimora, dovuta al suo passato di giornalista; poi ci sono gli attori non professionisti utilizzati il più possibile; la scelta di una troupe legata alla città – che consente agli spettatori di entrare nella realtà degradata di Baltimora – si trasforma in qualcos’altro: un mondo d’invenzione «completo e autosufficiente» secondo Jameson, sfaccettato e soprattutto dotato di senso in sé. Un mondo composto di microcosmi: politica, criminali, polizia, ecc., ognuno mostrato nelle sue peculiarità (compresi i diversi codici linguistici, accenti e così via). A The Wire si applica il leitmotiv di Libra di Don DeLillo: «c’è un mondo nel mondo», anzi, ce ne sono tanti. Ogni stagione si concentra sul «mondo» di un’istituzione: polizia, sindacato/porto, politica, scuola e quotidiani, osservandone il riverbero sulle vite dei singoli. Ogni stagione è tendenzialmente chiusa: alla fine di ognuna i poliziotti mettono via i faldoni dell’inchiesta svolta e una panoramica rende conto dei diversi personaggi (sia protagonisti sia comprimari).
Una serie come Breaking Bad mostra i vari aspetti del mondo in cui si muove il protagonista Walter White (la sua città, Albuquerque, la sua famiglia, il mondo del traffico di droga), ma solo per ciò che è legato a quest’ultimo. Quanto non riguarda Walter non riguarda nemmeno la serie e scompare rapidamente. In The Wire siamo invece esposti a un flusso di informazioni difficile da organizzare. La «sintesi memoriale» di Cesare Segre – la capacità di legare insieme le informazioni raccolte durante la fruizione di un testo – è impedita o complicata. Il mondo scorre, i personaggi vi si muovono: questo dà il senso di un universo compiuto, distante da quello delle narrazioni classiche perché manca di coerenza.
Ma non è tutto qui: i riferimenti alla realtà esterna a Baltimora (le politiche federali che spostano risorse dalla droga all’antiterrorismo; i legami internazionali dei trafficanti) indicano altri aspetti di un mondo che l’individuo non sa cogliere nella sua totalità, indicano sfere di senso che sfuggono all’immediata comprensione, e suggeriscono che quel mondo conchiuso sia più ampio di quanto ci venga mostrato. Riprendendo il leitmotiv di un altro romanzo di DeLillo, Underworld, «tutto è collegato». Come nella Commedia umana (tra i modelli di Simon), le linee narrative si sfiorano, s’intrecciano, fluttuano da un “volume” (una stagione) all’altro.
Lo stile narrativo di The Wire è apparentemente contraddittorio: ogni puntata si compone di sequenze in media più brevi delle comuni serie poliziesche (ad esempio, 1,02 minuti a beat nel 1° episodio della terza stagione, per un totale di 49 beat in 59 minuti; il beat è l’unità narrativa di base delle serie tv), che danno un senso di velocità, eppure le storie procedono lentissime. Gianluigi Rossini ha sottolineato che le arcate narrative lunghe tendano a concentrarsi sulle relazioni interpersonali: The Wire, invece, serializza anche gli aspetti più immediatamente avvincenti che normalmente sono il fuoco di una puntata. Una distensione narrativa evidente nella prima metà della terza stagione: qui non avviene alcun avanzamento nelle indagini di polizia, che sembrano girare a vuoto, e anche le altre trame languono. Il tono del resto era già stato offerto dal primo episodio, Time After Time, nel quale di fatto non accade nulla di rilevante.
In tal modo lo spettatore può concentrarsi su altro che non l’azione: per esempio, la polisemia (la polvere levatasi dall’abbattimento delle torri, un tempo dominio della gang Barksdale e distrutte in vista di un luminoso futuro, investe materialmente gli spettatori), le isotopie. Si veda il continuo tornare del tema degli scacchi, vera dorsale metaforica di The Wire, dove però il fuoco non è sulla strategia, ma sulla rilevanza di ogni elemento: nel 6° episodio della prima stagione, si dice che “all the pieces matter“, tutti i pezzi sono importanti. Di frequente le svolte nella trama avvengono in modo inaspettato (una pistola smarrita da un agente viene ritrovata dopo molto tempo; il rapinatore di spacciatori Omar, che tutti temono, è ucciso da un bambino).
Ancora, si veda Breaking Bad: lì persino il disastro aereo che apre la terza stagione è provocato (indirettamente) da Walter, una figura prima ancora che tragica (per la sua parabola) epica, che controlla il destino. L’opposto di The Wire, serie cui Breaking Bad è spesso accostata. Qui i personaggi hanno sul mondo effetti casuali, imprevisti; i grandi gesti restano senza conseguenze e le piccolezze cambiano tutto: all the pieces matter. Questo ci porta alla mancanza di una chiusura soddisfacente: in The Wire sono quasi assenti i cliffhanger; la sequenza iniziale è “fredda” e slegata dal resto (nel primo episodio il detective Jimmy McNulty parla con il testimone di un omicidio che non ha alcun collegamento con quanto segue, del quale non si parlerà più); ciò anticipa la mancanza di punti focali forti che diano una vera risoluzione.
Il finale non segna la risoluzione di tutte le faccende, anzi, le sequenze conclusive di ogni stagione mostrano come le cose vanno avanti comunque. Le conclusioni di The Wire sono antiteleologiche; mostrano l’impossibilità di risoluzione. Il «senso della fine» sfugge. In questo la serie tv di Simon ricorda i romanzi di Roberto Bolaño, costruiti su un impianto di genere con ampio uso di suspense, sebbene alla fine le domande restino abitualmente senza risposta. Il realismo di The Wire è in parte dovuto all’approccio naturalistico del racconto (tranches de vie, etnografia), in parte a questa modalità narrativa che rimanda alla complessità che il mondo d’invenzione condivide con il nostro. Esistono processi invisibili che ci trascendono, che vanno avanti anche senza di noi. I mondi nel mondo continuano a esistere.
Un’ultima osservazione riguarda lo statuto dei due generi qui osservati: entrambi nascono come forme si direbbe oggi di consumo, per il diletto di un pubblico scarsamente educato, per «passare il tempo». Nel corso di alcuni secoli il romanzo è finito per diventare, con le parole di Walter Siti, «l’ammiraglia che la letteratura schiera contro il pensiero sistematico». In altre parole, una forma antiletteraria è diventata un genere letterario di grande prestigio: una vera e propria «arte», come l’ha definito Milan Kundera. Dire “arte” non significa dare un giudizio di valore, ma ritagliare un sottoinsieme di un medium con alcuni aspetti omogenei. La trasformazione di alcuni media in forme artistiche (dunque dotate di un peculiare regime estetico) è un processo in gran parte sociale, legato ai rapporti tra attori del campo (Bourdieu). Ma in parte è dovuto alla natura formale del testo. Un’oggetto artistico crea un sistema: si mette in relazione con altre forme e lega corto (singole sequenze, singoli elementi testuali) e lungo raggio (architettura, struttura) per offrire una rappresentazione del mondo basata su una rete di isotopie, significati ulteriori, archi metaforici. La costruzione architettonica di The Wire è un ottimo esempio di questa densità formale e del legame che si instaura con altre forme artistiche: il romanzo, innanzitutto, il cinema, le opere di non fiction. Come il romanzo, anche questa serie tv riesce a inglobare altre forme. L’arte di The Wire è forse, allora, la prosecuzione dell’arte del romanzo con altri mezzi.
Riferimenti bibliografici
F. Jameson, Realism and Utopia in “The Wire”, in “Criticism” LII, 3-4 (2010).
L. Williams, On The Wire, Duke University Press, Durham and London 2014.
E. Piga Bruni, Romanzo e serie tv. Critica sintomatica dei finali, Pacini, Pisa 2018.
C. Tirinanzi De Medici, Modo epico e modo romanzesco nel sistema narrativo contemporaneo, in, L’epica dopo il moderno (1945-2015), a cura di F. De Cristofaro, Pacini, Pisa 2017.