Siamo in un’aula di tribunale. Julio Strassera, uno dei procuratori del più grande processo della storia argentina, quello contro gli anni più cruenti della dittatura (gli anni dei desaparecidos, per intenderci), si tappa il naso e indirizza il gesto verso uno degli avvocati dei militari incriminati. Lo sta irridendo.
Una ironica irrisione è anche quella di inizio film – Argentina, 1985 di Santiago Mitre – indirizzata questa volta dalla moglie di Strassera al marito stesso, quando questo sospetta perfino che il fidanzato della figlia sia uno dei servizi segreti, e lo fa pedinare dal fratellino. “Paranoico” gli dice la moglie. E il marito non esita a riconoscere che ha paura e “se la fa sotto”, perché sta per iniziare un processo epocale.
In un altro momento del film, Strassera riceve al telefono una serie di minacce. Riattacando comunica alla famiglia: “Da questo momento rispondiamo solo io e mamma al telefono”. Per sentirsi dire dalla moglie che tutto era già noto: “Chi era? È di nuovo quello delle minacce? Hanno già chiamato più volte!”.
È possibile trattare un tema come la dittatura con un registro anche commedico? Ridere delle paure, illusioni, comportamenti esagerati che una situazione del genere porta anche con sé. Ridere non solo senza perdere nulla della forza del tema sociale in gioco, ma forse aumentandone anche la portata.
La dittatura e i suoi orrori sono temi che richiamano direttamente un trattamento drammatico e tragico, perché comportano non solo spargimento di sangue e morte, scomparse ed umiliazioni, ma qualcosa che le guida, cioè la paura e il terrore come sentimenti fondamentali che orientano in maniera pressoché totalizzante il comportamento umano in certe epoche.
Abbiamo visto tanti film sui regimi militari argentini e sudamericani, sulle torture e sulle sofferenze, ma proprio per questo tale associazione tra dittatura e rappresentazione drammatica si è fatta spesso cliché, impedendo allo spettatore di percepire tutto l’orrore di un regime militare.
Associare strettamente una tragedia storico-politica ad una forma rappresentativa e ai codici che ne garantiscono verosimiglianza determina la costruzione di una macchina emotivo-cognitiva che al massimo può soddisfare il nostro piacere (di riconoscimento) durante la visione, ma ben presto scompare e si cancella dai nostri pensieri, dai nostri sentimenti e dalla nostra memoria. Perché è troppo vista. Esperienze recenti di immagini dai territori di guerra ce lo confermano.
Decidere di poter anche ridere di un tale tema tragico significa costruire le condizioni per prenderne le distanze. E cioè per percepirlo e farlo percepire meglio.
C’è un altro momento esemplificativo nel film. Strassera, che può contare solo su collaboratori giovani, perché adulti e vecchi hanno troppa paura, è scettico sulla possibilità di convincere chi è stato vicino al regime. Per esempio, la madre del giovane procuratore e collaboratore Louis Moreno Ocampo, che era vicina al regime e “andava a messa con Videla”. Ma un giorno, dopo le prime udienze del processo, quando il figlio la chiama, la madre gli dice che dopo le prime confessioni dei testimoni ha cambiato idea: “Avete ragione, andate avanti” dice al figlio.
Noi sorridiamo quando vediamo Strassera percepire stupito questo ribaltamento di opinione di un’anziana donna. Ma allo stesso tempo vediamo e capiamo meglio in questa situazione comica che in altre forme la volubilità delle opinioni e dei sentimenti umani quando passano dalla propaganda di un regime alla verità di un testimonianza.
Ma come in tutti i trattamenti comici di temi tragici e storicamente veri (il cui modello insuperato rimane Il grande dittatore) non può mancare l’accesso al discorso finale, che deve sciogliere e dirimere ogni potenziale equivocità. In questo caso è l’arringa finale di Strassera, rivolta ai giudici e rivolta anche a noi spettatori.
Questa arringa è limata fin nei dettagli, fatta ascoltare al figlio adolescente, che accompagna da vicino il padre per tutto il processo, per valutarne chiarezza ed impatto emotivo. E lì abbiamo passaggi notevoli, la citazione di Dante e dei violenti contro il prossimo del settimo cerchio dell’Inferno, immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente, e poi il sadismo come “perversione e non come ideologia politica” e infine l’abisso in cui la dittatura ha portato una intera nazione e la stessa natura umana. Questo abisso è una possibilità che appartiene all’umano e che solo con un agire politico “democratico” e “giusto” si può allontanare.
E allora l’ultima parola del giudice sarà la parola di tutti: “Signori giudici, vorrei rinunciare all’originalità nel chiudere quest’arringa. Perciò vorrei usare una frase non mia, poiché già appartiene a tutto il popolo argentino: Nunca Más!”.
E su questo “mai più” c’è un finale un po’ retorico, una scena di gioia collettiva in un tribunale accompagnata da una musica trionfante. Scena che non mette in questione la forza e l’originalità di un film, dove il comico diventa la chiave di accesso e di espressione migliore anche della tragicità della storia.