Ma è già l’ora di andarsene, io a morire,
voi a vivere; chi di noi però vada
verso il meglio, è cosa oscura a tutti,
meno che al dio.
Platone
Mò pe’ fa un giro de corsa me sento er nemico sociale.
Insultato dai balconi. Sorpreso ad allenarsi sul tetto di un condominio a Monza. Ripreso dalla vicina, cui risponde prendendo a martellate la di lei auto in quel di Montesilvano. Bullizzato da un’infuriata Barbara D’Urso in diretta tv. Picchiato a sangue a Padova. Rimproverato via social network da Laura Pausini, Chiara Ferragni e Fiorello. Tacciato di individualismo amorale. Fotografato a sua insaputa ed esibito su Facebook come icona del contagio. In fuga, con invidiabile scatto, da un meno atletico vigile urbano sulla spiaggia di Pescara. Colpevolizzato da Beppe Sala: “Premetto che voi potete correre, però provate ad avere questo pensiero: mentre tu runner corri, sei felice, ne hai cento alla finestra che ti guardano e si arrabbiano perché si sentono reclusi”.
Se esiste una figura emblematica dell’emergenza Coronavirus è il runner. Nessuno più di lui (o di lei, anche se nelle rappresentazioni giornalistiche non figura “la” runner) ha saputo far convergere su di sé le contraddizioni della cosiddetta “Fase 1” della quarantena, che tra la fine di febbraio e l’inizio di maggio 2020 ha progressivamente paralizzato il nostro paese. Il peccato, del resto, è inscritto ab origine nel gesto podistico: è un runner il “paziente di Codogno”, che nella sua peregrinazione virale infesta affollate gare in Liguria, tra Santa Margherita Ligure e Portofino, e in Lombardia a Sant’Angelo Lodigiano.
Questo onnipresente protagonista di surreali cronache locali ha iniziato a fissarsi nella mia mente per la sua vena splatter: reale al punto da inorridire gli spettatori della pandemia, chiusi nel loro cinema domestico, e così caricaturale da far sorridere macabramente chi è riuscito a mantenere uno sguardo cinico sulla (s)proporzione tra malanno e rimedi (sociali). Quale posto occupa il runner nell’immaginario pandemico? E che cosa ci insegna il runner circa la lotta simbolica (ma con effetti molto materiali) tra le narrazioni alternative del lockdown?
Lottando contro chi di questo stato na gabbia sta facendo.
Tra i frame che hanno alimentato e oppresso il nostro immaginario, due hanno da subito attirato la mia attenzione. Il primo, con focolaio nei media mainstream e nella comunicazione pubblica, è un racconto epidemiologico, centrato sulla potenza del dato: esibito nella quotidiana conferenza stampa del capo della Protezione civile, trasformato in statistiche, curve, trend, usato per costruire una classifica mondiale simile a un triste medagliere di Olimpiadi che non avranno luogo.
Un dato palesemente falsato (perché i contagi dipendono dai tamponi, la cui numerosità è funzione di scelte politiche e di risorse materiali; perché i decessi misurano le morti ospedaliere, e non quelle domestiche o nelle residenze per anziani), ma esibito come certezza per orientare previsioni e strategie politiche o regalare visibilità mediatica ai suoi esegeti. Un dato, soprattutto, necessario alla costruzione di una metafora bellica: il paese in lotta contro un nemico invisibile, sotto la guida di un comandante in capo intollerante verso il disertore, ovvero colui che incrina l’unità del paese in guerra mettendone in discussione la narrazione.
Il runner si candida a principe dei traditori: non soffre all’unisono con il suo popolo, ma esibisce la sua atletica indifferenza violando gli arresti domiciliari mentre i reclusi (immobili) ne devono sopportare la vista dalla finestra. E lo fa vantando il rispetto dell’unica misura precauzionale riconosciuta da tutti come efficace: la distanza. Con ciò, mette in luce l’incoerenza del decisore politico che predica rarefazione sociale, mani pulite e Amuchina, mentre riduce l’orario di apertura dei supermercati e di servizio dei mezzi di trasporto (leggi: assembramento) e, almeno nella virulenta Lombardia, gestisce la pandemia attraverso l’ospedalizzazione (leggi: assembramento) invece che con il tracciamento e l’isolamento dei positivi.
La seconda narrazione è domestica e ha il suo focolaio nei social network: è quella della torta fatta in casa, delle foto e dei racconti centrati su riscoperta di sé, tempi lenti, introspezione, accurate pulizie di tapparelle. Un ripiegamento intimo che esprime la falsa tensione tra lo spazio chiuso (protetto) e quello aperto (pericoloso e virale), instagrammando e mitologizzando le attività domestiche come porto sicuro mentre in mare infuria il virus. Anche in questo caso il runner è l’elemento distonico: è il marinaio che sta là fuori, nelle acque agitate, e visto dal porto ha le esatte sembianze di un irresponsabile che voglia farsi beffe della pavidità di chi è “al sicuro”. Il runner, insomma, si offre come perfetta vittima sacrificale per sostenere entrambe le narrazioni: eroe, al contrario, di due mondi.
Try walking in my shoes.
L’azione politica ha beneficiato della stigmatizzazione del runner, un perfetto falso bersaglio per distogliere lo sguardo da altri pensieri, parole, opere e omissioni, lasciando tuttavia il “lavoro sporco” all’hater-citizen: nonostante gli inviti a non abusare dello spazio esterno siano sulle labbra di politici ad ogni livello, e in modo caricaturale su quelle dei sindaci-sceriffi a caccia di passeggiatori seriali, la definizione della situazione (il runner come untore e irresponsabile) è il risultato di una mobilitazione collettiva e popolare, performata dal cittadino che ingiuria, denuncia, biasima il runner.
Solo ad uno sguardo distaccato il runner appare nella sua pluralità, quella di categoria di individui. Non nella forma di “gente al parco” denunciata sui social con la didascalia “loro corrono, ci meritiamo la quarantena”, ma nel loro essere involontario movimento di resistenza al lockdown all’italiana. In un momento in cui gli intellettuali sono impegnati a riflettere sul virus come occasione di riscrittura del futuro (sforzo che configura una terza narrazione, quella utopica, che impegna l’alfabeto intellettuale dalla AB di Alessandro Baricco alla Z di Žižek), la critica del presente è tragicomicamente nelle mani, o per meglio dire nelle sneakers, dei runner. Privi sia dei mezzi che delle intenzioni di sviluppare una coscienza di classe o porsi come soggetto politico, più di altri evidenziano l’incoerenza tra teoria e prassi dell’azione dei palazzi governativi, lo «scarto tra quel che la nostra società dice di voler fare, e quel che di fatto realizza», come ha scritto Piero Vereni: rallentare la diffusione del virus concentrandosi sul trasgressore in scarpe da corsa invece che sulle fabbriche tenute aperte e le residenze per anziani lasciate al loro destino.
Il recluso responsabile, per nulla affascinato dal nuovo soggetto quasi-rivoluzionario, abbraccia una mitologia negativa del runner, lo identifica come trasgressore e si riconosce nella sua immagine contraria, istituendo un’opposizione priva di fondamento scientifico e sanitario tra l’ambiente aperto insicuro e quello chiuso sicuro: l’Istituto Superiore di Sanità rileva che, su un campione di 4500 casi di Covid-19 diagnosticati tra l’1 e il 23 aprile 2020, il 44% delle infezioni è stata contratta in una RSA, il 25% in ambito familiare, l’11% in ospedale o ambulatorio e il 4% al lavoro.
We were born to run.
All’alba della “Fase 2” il runner ha subito calzato le sue costose scarpe da corsa. Dimenticheremo presto di averne fatto un capro espiatorio o, al contrario, un vessillo di libertà. La sua vita da eroe dell’immaginario sarà stata troppo breve per farne ritratti vividi e appassionati, come quelli che Benjamin e Simmel hanno dedicato al giocatore e all’avventuriero, eroi della modernità.
Converrà tornare in futuro, con lucidità post-pandemica, al fotogramma dell’individuo che corre solo e ben distanziato dal prossimo, e che tuttavia porta un facile bersaglio sulla schiena, mentre nei luoghi di lavoro chiusi troppo tardi su pressione (conf)industriale o tenuti aperti perché essenziali i lavoratori non godevano delle necessarie condizioni di sicurezza e distanziamento; converrà tornare alla sua percepita natura di focolaio ambulante, usata per distogliere l’attenzione dalla malagestione dei veri focolai quali ospedali e RSA, per interrogarci sulla forza dei nostri anticorpi di fronte al virus della semplificazione, della stigmatizzazione, della (auto)distrazione di massa. Anticorpi che sembrano non avere funzionato, se non nell’interesse della costruzione di un acritico immaginario pandemico. Allora, forse, riconosceremo al runner, comico come il protagonista di un film splatter e velleitario come un barricadero, il merito di aver messo involontariamente a nudo l’arbitrarietà della violenza simbolica esercitata dallo Stato attraverso la narrazione epidemiologica e bellica.
Riferimenti bibliografici
A. Baricco, Virus, è arrivato il momento dell’audacia, in “La Repubblica”, 27 marzo 2020.
W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 1986.
G. Simmel, L’avventura, in Filosofia dell’amore, Donzelli, Roma 2001.
P. Vereni, #IoStoAllaLarga, in Fuori tempo massimo. Un blog in ritardo di Piero Vereni, 22 marzo 2020. http://pierovereni.blogspot.com/2020/03/iostoallalarga.html
S. Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, Firenze 2020.
Istituto Superiore di Sanità, Epidemia COVID-19 (Aggiornamento nazionale 23 aprile). https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_23-aprile-2020.pdf
* Le citazioni che danno titolo ai paragrafi sono tratte da: Zerocalcare, Rebibbia Quarantine: La corsa; 99 Posse, Curre curre guaglió («Un giorno come tanti ma non certo per qualcuno / Qualcuno che da giorni mesi anni sta lottando / Contro chi di questo stato na gabbia sta facendo»); Depeche Mode, Walking in My Shoes («Now I’m not looking for absolution / Forgiveness for the things I do / But before you come to any conclusions / Try walking in my shoes»); Bruce Springsteen, Born to Run («We gotta get out while we’re young / ‘Cause tramps like us, baby, we were born to run»).