Annunciata
La passione di Giovanna d’Arco (Dreyer, 1928).

È straordinario come un libro d’arte, dedicato a L’Annunciata di Antonello da Messina, oltre a gettare nuova luce sulla genesi e sul significato di un famoso dipinto, sia capace di stimolare riflessioni inerenti addirittura il campo della teoria cinematografica. Leggendo ciò che scrivono gli autori in fatto di pittura, e di Antonello in particolare, sorge infatti la necessità di articolare ulteriori riflessioni finanche sul tema della differenza tra ritratto pittorico e primo piano cinematografico.

Tra ritratto (pittorico, poi anche fotografico) e primo piano (cinematografico) esistono numerose affinità e decisive differenze. Cos’è infatti il primo piano? Béla Balázs lo chiamava poeticamente “spartito visivo della vita polifonica”, ma cos’è se non il ritratto mobile d’un soggetto il cui sguardo porta con sé, geneticamente, la corrispondenza con altri sguardi, altre inquadrature, altri soggetti e altri oggetti, la cui visione ci è per il momento negata, ma suggerita dallo sguardo stesso? Questo significa che al primo piano corrisponde, praticamente o anche solo idealmente, un futuro controcampo, in cui anche noi potremo vedere ciò che al momento solo la figura in campo è in grado di vedere: procedimento archetipico del montaggio filmico. Il primo piano, insomma, introduce la promessa d’una mancanza che verrà colmata, di un prossimo avvento alla visione di qualcosa o qualcuno che per il momento è invisibile: lo sapeva bene Griffith, lo sapevano bene i teorici sovietici del montaggio.

A volte, dall’espressione dello sguardo, dalla postura, dall’atteggiamento, dal meccanismo del congegno narrativo, dal genere di film, possiamo già intuire cosa ci mostrerà il controcampo a seguire. A volte no: lo sguardo che vediamo può rimandare a emozioni complesse, polivalenti, difficili da interpretare, e si pensi a questo proposito all’esperimento di Kulesov, in cui l’espressione  identica d’un attore sembra addirittura cambiare se abbinata a oggetti diversi. In una delle prime scene della Passione secondo Matteo  (1964) di Pasolini, vediamo un primo piano della vergine Maria, l’ovale perfetto del volto incorniciato da un mantello scuro, in un’inquadratura frontale che ricorda proprio la postura de L’Annunciata di Antonello da Messina. La bellezza dei suoi occhi è appena turbata da un’ombra di timore.

Ma cosa stanno guardando, quegli occhi? Non un Angelo, come la nostra ignoranza ci porterebbe a credere, ma (come mostra il controcampo successivo) il suo promesso sposo Giuseppe, sconcertato da un ormai visibile stato di gravidanza. Secondo il dettato di Matteo, non a Maria, ma a Giuseppe apparirà l’Angelo, per rassicurarlo sulla castità di colei che dovrà sposare. E quell’ombra di timore negli occhi di Maria si lascia allora interpretare come timore che, malgrado tutto, Giuseppe possa non capire e non accettare la situazione.

Dunque siamo in grado, tramite il montaggio, di mostrare in un film ciò che un personaggio vede e noi momentaneamente non vediamo. Siamo in grado di lasciar intuire la presenza di qualcosa o qualcuno fuori campo, per poi reintrodurlo in campo (anzi, in controcampo), rendendolo visibile. Ma campo e controcampo, pur venendo successivamente alla visione, esprimono qualcosa di temporalmente simultaneo. Una cosa del genere è possibile in pittura, dove il controcampo non avrebbe molto senso, neppure nei casi di cicli pittorici narrativi?

Non meraviglia che, di fronte a L’Annunciata di Antonello, a questa straordinaria anticipazione pittorica di procedimenti resi possibili dalla tecnologia solo parecchi secoli dopo, qualcuno abbia potuto pensare a un possibile abbinamento con altro pannello, della cui esistenza, però, non s’è mai trovata la minima traccia.

La lunga storia delle Annunciazioni, qui ricostruita da Tomasino, presenta quasi sempre e tanto più in epoca rinascimentale, due personaggi, la Vergine e l’Angelo, Maria e Gabriele, uno di fronte all’altro, riuniti nello stesso quadro, secondo un’importanza paritaria, in genere Maria a destra, l’Angelo a sinistra, come fosse appena arrivato, all’interno della stanza di una casa signorile, al riparo d’un porticato o dentro un giardino recintato. Due personaggi insieme messi in campo, messi in scena o meglio, messi in quadro, perfettamente equivalenti, senza che tra loro si manifesti alcuna gerarchia prospettica (per questo, bisognerà aspettare Caravaggio). In ogni caso, nessun problema di comprensione – il significato iconologico della scena è evidente.

Nell’Annunciata di palazzo Abatellis, invece, mettendo in scena frontalmente la sola Vergine mentre riceve la visita dell’Angelo (che non si vede), Antonello non esegue solo un ritratto, ma anticipa, in pittura, il primo piano cinematografico (anche se, tecnicamente, si dovrebbe parlare d’un mezzo primo piano). Con una sola inquadratura, senza bisogno di alcun controcampo, ci fa capire quello che in un film verrebbe mostrato appunto dal controcampo, ossia quello che in quel momento sta vedendo Maria.

Maria è mostrata nell’atto di vedere/sentire. Cosa sente, lo sappiamo da Luca (e da altri Vangeli apocrifi): non è affare della pittura. Cosa vede noi non lo vediamo, perché l’Angelo si è spostato fuori quadro, occupando il posto invisibile del pittore e poi dello spettatore, ma lo intuiamo da alcuni particolari. Invisibile, esso è presente nel quadro sotto forma di soffio, di vento leggero, che possiamo anche interpretare come suscitato dal battito delle ali della colomba-Spirito Santo e solleva la pagina d’un libro, su quel leggio in leggera prospettiva, permettendoci di leggere almeno la M e altre lettere del Magnificat. La sua presenza è leggibile nell’espressione degli occhi di Maria, leggermente stupiti da un annuncio talmente inaudito; è leggibile dal gesto espressivo delle sue mani, la destra protesa in avanti come a fermare un’intrusione, la sinistra sul petto nell’atto di racchiudere i lembi del mantello. In effetti qui l’espressione di ciò che avviene appartiene più alle mani e al libro che agli occhi. Gli occhi rimangono misteriosi, quasi indecifrabili.

Non è facile, da essi, dedurre alcuna forma evidente di accettazione, e neanche di rassegnazione. Ci si vede una modella vera: una fiera ragazza contadina, dello stampo della Giovanna di Dreyer, oppure una potenziale ribelle, tipo la Marie moderna di Godard, che al saluto dell’Angelo risponde (enigmaticamente) passandosi il rossetto sulle labbra. Sono tutti casi, in cui il corpo materiale d’una donna surclassa ogni tipo di cosiddetta spiritualità; almeno per certi pittori, come per certi registi di cinema, il corpo è l’anima.

Il quadro allora, nella sua apparente semplicità, acquista il carattere di costruzione d’una scena labirintica, come scrive Tomasino, analogo all’anamorfosi del teschio negli Ambasciatori di Holbein, quadro ormai legato all’esegesi di Lacan, o allo specchio delle Meninas di Velazquez, su cui si è a lungo intrattenuto Foucault. L’Angelo, invisibile, nel L’Annunciata, malgrado tutto è nel quadro. Il fuoricampo, senza bisogno di controcampo, è in campo. Il quadro non è più semplicemente “contemplabile”, ma acquista una sottile tensione. Maria sta guardando l’Angelo, ma al posto dell’Angelo c’era il pittore e adesso ci siamo noi spettatori.

Siamo noi a sentirci guardati dal quadro, catturati dal suo fascino inquietante. In una pittura del ‘400, ci guarda il cinema.

Riferimenti bibliografici
GruppoArte16, M. Lucco, G. Taormina, R. Tomasino, Il mistero dell’Annunciata. Analisi ed interpretazione del capolavoro di Antonello da Messina, Odoya, Bologna 2018.

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