Anselm, il documentario che Wim Wenders dedica all’artista Anselm Kiefer, è un film profondamente sonoro. La scena iniziale del film è una sinfonia di voci, di cui ci accorgiamo solo dopo alcuni secondi. La scena si svolge nel parco-atelier di Kiefer in Francia. All’interno di un’installazione è disposta a quadrato una serie di statue che rappresentano alcune tra le principali figure femminili della cultura europea, classica e moderna: eroine mitologiche, sante, personaggi storici.

La macchina da presa passa in rassegna queste statue, che sembrano manichini, a cui l’artista ha messo composizioni di fil di ferro al posto della testa. Mentre la macchina da presa ce le mostra, ci accorgiamo che il silenzio di questa scena senza presenze umane è rotto da voci femminili che si sovrappongono, parlando lingue diverse: tedesco, inglese, francese, italiano. È una Babele di lingue confuse tra loro, dai cui bisbiglii riusciamo ad afferrare solo qualche frammento di frase.

La scena d’apertura spiega già il senso del racconto che Wim Wenders fa della vita e dell’opera del suo amico Anselm Kiefer. Come Wenders, Kiefer è tedesco. Entrambi sono nati nel 1945: l’anno zero della Germania appena uscita sconfitta dalla guerra, dopo la caduta del regime nazista. È un paese occupato dalle truppe alleate e diviso in due tra Est e Ovest. Né Kiefer né Wenders hanno passato il conflitto, ma ne hanno vissuto la pesante eredità.

Nella prima scena, subito dopo la visione dei manichini delle eroine della cultura europea, viene rievocato il ricordo di Kiefer bambino nella sua camera, che legge una filastrocca su un papà che combatte al fronte. Ma la guerra è finita: il padre di Kiefer, che ha militato nella Wehrmacht, è tornato a casa. I rumori dei bombardamenti aerei, che sentiamo di sottofondo, non sono un ricordo reale: sono una fantasia del piccolo Anselm.

A differenza di quello che Susanna Nicchiarelli ha raccontato della cantante Nico in Nico, 1988, i rumori che ossessionano la mente di Anselm non sono la cicatrice di un trauma causato dalla guerra: sono il fantasma di un orrore invisibile, che tuttavia aleggia attorno alla vita di Kiefer fin dalla nascita. Kiefer e Wenders condividono il fatto di non aver attraversato il tempo della distruzione, ma di essere venuti al mondo nel tempo, non meno difficile, della Ricostruzione. Arriviamo così al secondo valore dei suoni che accompagnano le immagini lungo tutto il film.

Non è un caso se, fin dalla prima scena, si tratta spesso di voci umane. È la parola incarnata dalla voce che occorre riscoprire e tornare a comprendere attraverso le immagini. In una delle testimonianze rilasciate durante il film, Kiefer ricorda come a Friburgo, dove ha studiato, avrebbe potuto conoscere e ascoltare Martin Heidegger, ma che questo incontro non ha mai avuto luogo. Heidegger non è solo il padre dell’Ermeneutica: è anche il filosofo che aderì al nazismo, ma che non disse mai una parola di scuse o di spiegazione sulla sua scelta politica.

Da filosofo, Heidegger ha praticato come pochi altri la lingua: il greco, la lingua originaria della filosofia, e il tedesco, la lingua che a suo dire ne avrebbe raccolto il destino. Era infatti convinto di poter risalire in questo modo al senso dell’essere che fonda tutte le cose, o perlomeno di poter ripetere l’esperienza dell’evento che ha portato all’oblio dell’essere.

Il progetto ermeneutico, raccolto – e «urbanizzato», suggerì Habermas – da Gadamer, allievo di Heidegger, è diventato il tentativo di ridare vita a una tradizione umanistica, capace di fondere assieme i diversi linguaggi, e le diverse lingue, che abitano lo spazio dello spirito europeo, attualizzandone il senso e il significato per il tempo presente. Quello di Gadamer è, in questo senso, un progetto ottimista e rassicurante di ricostruzione della civiltà occidentale. Kiefer fa, però, i conti con il fallimento di un simile programma.

Il suo maestro non può essere Heidegger, o Gadamer, ma è Paul Celan: il poeta ebreo, nato nei Balcani ma di lingua tedesca, sopravvissuto alla Shoah, dove ha perso tutta la famiglia. È il poeta che, a onta della sua vicenda, continua disperatamente a usare la sua lingua materna, il tedesco, per denunciare la bancarotta della visione umanistica del mondo che quella lingua, forse più di altre lingue europee, ha provato a rappresentare nel corso della modernità.

Il poeta Celan andò a Friburgo a fare visita al filosofo Heidegger. Da quell’incontro, come scrisse sul libro degli ospiti della casa, Celan si aspettava una parola: una richiesta di perdono? Il tentativo di spiegare la scelta tragica di aderire al nazismo? Non lo sapremo mai. Il film monta, tuttavia, sulle immagini delle opere sovraccariche di scritte, elementi e colori di Kiefer la registrazione di Celan che recita un suo componimento: con voce disperata, il poeta strazia la lingua tedesca, immaginando di rivolgersi a un carnefice nazista, il quale, dopo aver compiuto i suoi crimini, continua a vivere tranquillo e ad abitare la bellezza e la dolcezza della lingua di Goethe e Schiller.

Kiefer, però, non è figlio della persecuzione: la sua famiglia appartiene alla schiera dei milioni di tedeschi che appoggiarono il nazismo. Per questo motivo, ispirato da Joseph Beuys, maestro nell’arte della provocazione, il giovane Kiefer intraprende il progetto di scattare una serie di autoritratti fotografici nell’atto di fare il saluto nazista, vestito con la divisa che era stata di suo padre, in alcuni luoghi iconici della Seconda guerra mondiale: Parigi, il Colosseo a Roma, le radure dell’Est. Questa provocatoria “riconquista” del suolo europeo vuole essere un atto di denuncia contro la mancata elaborazione della memoria, di cui è vittima la generazione a cui appartiene l’artista.

Un tale ingresso nella scena artistica mondiale ha reso Kiefer un personaggio tanto acclamato quanto controverso. Ma il percorso intrapreso doveva portarlo in un’altra direzione, come mostra bene Wenders. Aggirandoci negli spazi smisurati degli hangar dove oggi Kiefer realizza quadri giganteschi, ultimo esito del suo lavoro, capiamo che il fine delle sue azioni era un altro. Kiefer ha accumulato un gigantesco archivio di immagini e testi, che non finisce mai di rielaborare, trasformandoli in opere dove il passato si mescola al mito, fusi insieme in una trama di paste passate quasi rabbiosamente con la spatola; di arbusti bruciati dalla fiamma ossidrica; di scritte che, nel magma di forme e colori, ricordano qual è lo sfondo di questo lavoro di seconda distruzione, questa volta dell’immagine.

È come se Kiefer vivesse per arrivare a esaurire l’archivio che ancora vive nei fantasmi della sua memoria, per poter essere finalmente libero di vivere. Nell’ultima parte del film, il piccolo attore che interpreta Kiefer bambino e il vero Kiefer si aggirano nei luoghi dell’infanzia dell’artista. Solo nella scena finale si ricongiungono, guardando insieme il paesaggio di un fiume che scorre in mezzo alla campagna. Ma non è un riconoscimento, non si guardano: al contrario, li vediamo di spalle, il bambino sulle spalle di Kiefer. Fusi come una delle statue mostruose, mitiche e perciò umane troppo umane, che abbiamo visto all’inizio. Capiamo allora che la vita di Kiefer è trascorsa in mezzo alle immagini, alla ricerca impossibile di sé e del proprio mondo, in mezzo al frastuono del passato.

Riferimenti bibliografici
D. Di Cesare, Utopia del comprendere, Il Melangolo, Genova 2003.
H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000.
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2019.
V. Trione, Prologo celeste, Einaudi, Torino 2023.
F. Vercellone, Simboli della fine, il Mulino, Bologna 2018.

Anselm. Regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders; fotografia: Franz Lustig; musiche: Leonard Küßner; interpreti: Anselm Kiefer, Daniel Kiefer, Anton Wenders; produzione: Road Movies; distribuzione: Lucky Red; origine: Germania; durata: 93’; anno: 2024.

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