Touch nothing can bring back the hour
of splendor in the grass, of glory in the flower;
we will grieve not, rather find
strength in what remains behind.
William Wordsworth, Ode all’immortalità.
Di fronte a un hamburger e patatine, nella sala di un locale notturno di Manchester in cui si sta allestendo il palcoscenico per il concerto della sera, Christa Päffgen (in arte Nico), interpretata da una straordinaria Trine Dyrholm, restituisce al suo agente (nel film John Gordon Sinclair) un libro prestatole qualche settimana prima in una casa popolare di Anzio: una raccolta di poesie di William Wordsworth, da cui la cantante trasse ispirazione per scrivere uno dei suoi album più conosciuti e apprezzati, The Marble Index. C’è una delle odi, quella all’immortalità, che la colpisce particolarmente, soprattutto alcuni versi che fa leggere ad alta voce all’uomo, innamorato, davanti a lei. C’è una frase che non la convince, tuttavia: quella in cui il poeta inglese afferma che non bisogna abbandonarsi alla sofferenza dei ricordi, bensì piuttosto trovare la forza in ciò che rimane dietro alle nostre spalle. Nico non è d’accordo, si chiede perché le memorie da rielaborare, che siano dolorose o felici, debbano restarci dietro; piuttosto, lei vede il ricordo come qualcosa che si apre davanti alla propria persona. Fa un gesto con la mano: portandola di fronte al petto, prossima al suo corpo.
Susanna Nicchiarelli (al suo terzo lungometraggio dopo Cosmonauta nel 2009, vincitore a Venezia del premio Controcampo, e La scoperta dell’alba nel 2013) non fa qualcosa di diverso con il suo film: come la sua protagonista, porta sullo schermo davanti a sé e davanti allo spettatore la memoria di una delle più grandi e controverse figure femminili del panorama musicale internazionale. Nico, 1988 (presentato nella sezione Orizzonti, in sala dal 12 ottobre) non è un film che vuole documentare gli ultimi due anni di vita di quest’artista (1986-1988, agli apici della sua carriera da solista dopo essere stata icona del Gothic Rock negli anni Sessanta al fianco dei Velvet Underground) facendoci voltare indietro per 90 minuti e a riconoscere il valore di una storia ormai archiviata. Al contrario, la pellicola di Nicchiarelli tanto aderisce alla storia che ha deciso di narrare da porgercela e lasciare che si dipani restandoci frontale, presente, in costante mutazione.
È proprio nella sua mancata pretesa di rielaborare eccessivamente gli eventi da un punto di vista cinematografico (per quanto ci siano modifiche e piccoli inserimenti originali nel racconto) che la regista riesce nell’intento di presentarci una materia ancora viva, immediata, da “impastare” con le nostre mani. La sua documentazione diviene così più mimetica che formalmente ricercata, ma raggiungendo il risultato di un migliore contatto con chi la segue e si ritrova non a fare i conti con una storia già passata da utilizzare come “trampolino”, stimolo o insegnamento per il futuro, bensì ad attingere le energie da un ricordo che, magari già “ricordato” da anni, è ancora tutto da scoprire.
Anche Philippe Garrel – che amò Christa coinvolgendola in sette dei suoi film, parlando del più celebre La cicatrice intérieure (1972) – affermò che in quel deserto musicato dalla sua ispiratrice cercava di afferrare tracce e pietre miliari raccontando semplicemente una storia, non utilizzando una macchina da presa. Forse è proprio la “Grande Sfinge”, dirompente nella vita di Warhol e della sua Factory, intima amica di Morrison, compagna di Alain Delon e madre di suo figlio Ari, ad incoraggiare, anche in Nico, 1988, uno stile che si libera dalla bellezza prettamente formale, “assoluta”. Una bellezza che non la rendeva felice quando era una biondissima modella tedesca perfetta ad apparire fugacemente ne La dolce vita (1960) di Fellini, come confessa nel film, e che è anzi da fuggire in favore di una schietta presenza, rabbiosa e dolente, spregiudicata e inafferrabile, che sola apre uno spazio di testimonianza vincente e con un suo peculiare equilibrio, se pur minacciato dal caos e dalla disperazione. L’atto di creazione della sua vita di artista, così come quello della cineasta che l’ha prescelta, non può che essere allora altrettanto diretto e sincero, poco costruito e nonostante ciò lineare come lineare è, dopo tanto arrovellarsi avanti e indietro nel tempo, la realtà che noi tutti viviamo da esseri umani.
Nico vive da bambina il dopoguerra berlinese, la liberazione americana, la fuga nella Berlino Ovest e il regime filosovietico delle censure (di cui continuerà a risentire fino ai cinquant’anni, come in quel famoso concerto di Praga in cui le sue energie deflagrano e vengono represse un momento dopo dall’intervento delle forze militari); muore poco prima di assistere alla caduta del muro, una mattina ad Ibiza, nel sole, in bicicletta. Ma per tutta la sua vita continua a cercare il suono di quelle bombe, gli echi di quelle macerie (che nel film irrompono a tratti, discreti ma decisi): persino nello scoppiettare di uno scaldabagno o nell’intermittenza dell’ecocardiogramma del suo sperso “petit chevalier”. Non si arrende all’idea di lasciare andare dietro di sé quella specifica vibrazione, quell’indimenticabile timbro, quel ricordo che ancora una volta vuole invece maneggiare e custodire nel registratore, che in nessuna occasione (persino in quella di emergenza del precipitoso superamento della frontiera ceca) può fare a meno di portare con sé.
Occhio e orecchio, visione e ascolto, immagine e musica – nei suoi brani, in questo film, nell’impresa che ha dovuto compiere l’attrice e cantante danese di Vinterberg nell’interpretare “sensorialmente” questa donna “introiettandola” attraverso la sua immaginazione – sono due dimensioni inscindibili. Nella voce scura e carnosa di Christa, così come negli schizzi di sugo degli spaghetti che finalmente può mangiare dopo anni di sacrifici, nel giallo dorato del limoncello di cui va pazza, nel sangue che sgorga dalle vene del figlio sporcandole le guance e nello sguardo penetrante e sbavato di trucco che ci rivolge lasciandoci inermi, un terreno sinestesico squarcia il buio di quella che chiamavano la “Sacerdotessa delle tenebre” e del suo ermetismo delirante spesso simile al capriccio restituendocela, come il libro citato all’inizio, più ricca di interrogativi e di fascinazione; più vissuta, più vicina.
Il tour che il film racconta è quello dell’ultimo album (Camera Obscura, 1985) ed è forse nel testo di My Heart is Empty che è possibile rintracciare il nocciolo di quanto detto fin ora. Il cuore di Nico non è vuoto perché rimasto vuoto, svuotato, dal dolore del passato a cui ancora è irrimediabilmente ancorato; è vuoto perché pronto ad accogliere l’amore e il dolore ancora presenti e futuri, la reciprocità del dialogo tra l’artista e il suo “altro”, il suo “fuori” – “My heart is empty but the songs I sing are filled with love for you”. Non è un caso che Susanna Nicchiarelli scelga di far cantare a Trine Dyrholm una Nature Boy di Nat King Cole rivisitata, in una delle scene più commuoventi del film: anche in questo brano è l’incontro con un “enchanted boy” in un giorno magico e inaspettato a donare la consapevolezza a tutti noi che la cosa più grande che possiamo imparare è quella di amare, ed essere amati “in return”. Quello che le canzoni di Nico e il film della Nicchiarelli ci chiedono è di esporci ad incontrare un bambino sognatore – “There was a boy” è l’incipit non solo del brano di Cole ma anche di un’altra celebre ode di Wordsworth – che nella sua più radicata, nel senso di meno lontana dalle “radici”, purezza, può condurci verso una memoria che, proprio nella sua rielaborazione, ci tornerà circolarmente sempre davanti.
Riferimenti bibliografici
A. Comunale, Philippe Garell – La cicatrice interiore, in “SentireAscoltare”, 2015.
Nat King Cole, Nature Boy, 1948.
Nico, The Marble index, 1969 / “Camera Obscura”, 1985.
W. Wordsworth, Poetical works, Clarendon Press, Oxford 1940-1949.