Con il suo ultimo film, vincitore della Palma d’oro alla 77ª edizione del Festival di Cannes, Sean Baker prosegue nel raccontare il vero volto degli Stati Uniti e dei suoi contesti sotterranei, urbani eppure marginali, e delle persone che li abitano, vittime delle aspettative illusorie proposte dall’american way of life. A portare avanti la vicenda è il desiderio di una brat di Brighton Beach, spogliarellista che si scoprirà sex worker, di uscire dalla miseria e ottenere una rivincita, come già visto con Halley in Un sogno chiamato Florida (2017) e con Sin-Dee Rella in Tangerine (2015). Il sogno di un’americana – di famiglia d’origini russe – cresciuta con il mito della prosperità economica, materiale, alla portata di tutti tramite impegno e determinazione.
Ad aprire Anora (2024) sono le note di Greatest Day dei Take That, sottolineando da subito il ruolo centrale ricoperto dalla speranza. “Today this could be, the greatest day of our lives” recita la canzone. La fiducia per una vita, o anche soltanto per un giorno, migliore. La vita americana: la ricerca della felicità, la costruzione di una famiglia, il successo lavorativo. Nonostante l’american dream abbia ormai manifestato la sua natura propagandistica e nazionalistica, perdendo l’appiglio che un tempo possedeva, secondo Baker continua a vivere nei desideri degli sconfitti. A fronte del fallimento degli Stati Uniti, a conferire speranza è paradossalmente lo storico contraltare dell’americanismo, ora culla del nuovo principe contemporaneo: un ricco giovane figlio di un potente oligarca russo.
Nel raccontare il percorso di presa di coscienza e disillusione di Anora, o “Ani”, nei confronti del sogno americano, Baker realizza un film che si presenta come un saggio sui diversi modelli della commedia, un’antologia dei meccanismi e tòpoi del genere, rispettati o ribaltati. La struttura in tre atti è sfruttata per agevolare un cambio di registro – dalla commedia romantica al comico, fino al suo annullamento nel dramma – che accompagna l’evoluzione della protagonista dentro e fuori la dimensione onirica, verso la triste (ma autentica) accettazione della realtà.
Il primo atto rispetta i codici della romantic comedy, sancendo l’inizio dell’illusione e l’ingresso nel sogno. Ani incontra Vanja e, dopo alcuni rapporti sessuali, accetta di essere la sua fidanzata per una settimana in cambio di quindicimila dollari. Arrivando a chiederle di sposarlo, ammettendo di essersi innamorato. Una storia d’amore a pagamento, l’amore capitalistico, che emula i modelli stereotipici alla Pretty Woman (Marshall, 1990), rielaborazione moderna della fiaba di Cenerentola. La regia richiama il linguaggio dei videoclip, insistendo su un montaggio veloce fatto di ellissi temporali, sequenze frammentate e predominanza musicale. Mentre l’immagine è sempre colorata e brillante, con neon e luci dei palazzi che invadono il quadro e illuminano i corpi all’insegna di feste, sesso e droghe. Sono le luci e i colori che illuminano Un sogno lungo un giorno (Coppola, 1981), il sole di Las Vegas che irradia i volti di chi sogna pieno di speranza. È un atto che sembra costruirsi in direzione di quello che nel cinema classico Stanely Cavell definisce commedia del rimatrimonio.
Il secondo atto subisce invece la contaminazione della comedian comedy, basandosi interamente sulla ricerca di Vanja dopo la fuga e il conseguente contrasto tra timore e speranza. L’ingresso del gruppo di tirapiedi armeni – incaricati di ritrovare il ragazzo e annullare il matrimonio – sostituisce il modello del principe azzurro con quello dei compagni di viaggio, trasformando Anora in un’opera corale. Sono figure costruite attorno a maschere della commedia, caratterizzazioni rigide e precise che, all’apparenza, vivono del ruolo che rappresentano più che di un’effettiva psicologia: il boss (Toros), la spalla goffa (Garnik), lo scagnozzo (Igor). Tra lotte, cadute e schiaffi, in particolare tra Ani e il taciturno Igor, le luci della città si affievoliscono, perdendo quell’estetica favolistica fatta di neon e fuochi d’artificio. Il montaggio cinetico si addolcisce, passando a lunghe scene in cui i confronti sono incentrati su situazioni da buddy film e su quello che nella screwball comedy Michel Chion definisce overlapping dialogues. I personaggi continuano tuttavia a interagire anche tramite aspetti performativi, ma al ballo e al sesso sono preferite le dinamiche violente e farsesche dello slapstick, unendo così la comicità fisica della comedian comedy con quella verbale, il wit, della romantic comedy. Sofisticatezza che volge lo sguardo in lontananza a film come Ninotchka (Lubitsch, 1939), e basa la propria brillantezza sulla sovrapposizione delle varie espressioni e inflessioni linguistiche: dall’inglese americano al russo, passando per l’armeno.
Il terzo atto vede infine la trasformazione della commedia in dramma, con il ritrovamento di Vanja e la conseguente accettazione della realtà a scapito del sogno. Giocando con la tradizione della commedia greco-latina, che presuppone la distinzione di classe come ostacolo all’amore, Baker mantiene il divario sociale ma ribalta la funzione positiva del meccanismo dell’agnizione – tipico del teatro greco, soprattutto della commedia nuova – che prevede un riconoscimento finale che porti al superamento dell’ostacolo. La scoperta dell’uomo dietro al principe azzurro, e del ragazzino dietro all’uomo, è però ciò che rompe l’illusione di un amore inesistente. Il riconoscimento esclude la possibilità del rimatrimonio e riporta il film alla dimensione reale, obbligando la protagonista a prendere atto della vera identità ora di suo marito ora della propria (Anora, non Ani), così come dell’arrivismo che la spingeva. Un amore ostacolato dalla sua stessa inesistenza, ma che, nel caso in cui esistesse, sarebbe per l’american dream, per una vita migliore, non di certo per Vanja.
Con il progredire del film, il personaggio di Igor è l’unico ad apparire caratterizzato da autentica umanità, da una psicologia che rompe la maschera attribuitagli dalla commedia, avvicinandolo alla figura della protagonista. Giunti all’ultima scena, dentro lo spazio ristretto di una macchina, l’ironia e la brillantezza dei dialoghi sono ormai del tutto scomparse, rimpiazzate da lunghi sguardi e silenzi, mentre la dinamicità dell’azione si è tramutata in estrema staticità. Luci e colori che nel corso dell’opera abbiamo visto affievolirsi sono svaniti, sostituiti da un’immagine grigia e dal freddo delle nuvole di Manhattan. Ciò che resta è un campo-controcampo che mette a confronto due sconfitti, i close-up di due volti rassegnati, quello di Igor e quello di Anora, uno di fronte all’altro, alla ricerca di un riscatto che tarda ad arrivare. Lui sembra comprenderla e lei aver accettato di svegliarsi da quel sogno da quindicimila dollari.
Non conosceva Vanja e non era alla ricerca del “vero amore”, bensì della possibilità di raggiungere il mito della “vita americana”, come Vivian Ward e altre icone al cinema prima di lei. Igor le mostra l’anello nuziale che le era stato sottratto da Toros, rubato per riconsegnarglielo. Oggetto che nel cinema di Douglas Sirk avrebbe rappresentato il simbolo dell’amore tra Anora e Vanja, il cuore del melò, qua diventa il palliativo economico per l’illusione infranta (o il simbolo dell’amore di Igor?). Vulnerabile come non è mai parsa, dopo aver consumato un freddo rapporto sessuale con l’uomo, Anora scoppia in un pianto profondo che spiegare sarebbe possibile, ma non necessario.
Riferimenti bibliografici
M. Chion, The Voice in Cinema, Columbia University Press, New York 1999.
S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Biblioteca Einaudi, Torino 1999.
Anora. Regia: Sean Baker; sceneggiatura: Sean Baker; fotografia: Drew Daniels; montaggio: Sean Baker; interpreti: Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Karren Karagulian, Yura Borisov, Vache Tovmasyan, Lindsey Normington, Darya Ekamasova, Aleksey Serebryakov; produzione: Cre Film, FilmNation Entertainment; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 139’; anno: 2024.