Un sogno chiamato Florida (nell’originale The Florida Project) è un film girato nell’ottica dell’infanzia, fatto di colori chiassosi e sgargianti, da sogno disneyano, a confronto dei quali perfino quelli dell’arcobaleno, che a un certo punto appare, sembrano pallidi. Ai piedi dell’arcobaleno, peraltro, i bambini sanno che c’è un tesoro, e basta andarlo a cercare, mentre il tesoro del castello incantato di Disneyland non è certo per loro. Per questi bambini, al castello incantato meta dei turisti, i cui pinnacoli aguzzi si confondono con quelli del logo cinematografico Disney, corrisponde il Magic Castle, residence dall’aspetto abbastanza squallido, frequentato da emarginati, spostati, donne sole con figli a carico e gente in condizioni economiche disagiate, perpetuamente in lite, ma anche capace di impreviste solidarietà. Il colore dominante è il viola.
Lo stesso Bobby (Willem Dafoe, unico attore noto in tutto il cast), direttore del residence e custode, per quanto possibile, della sua manutenzione (e rispettabilità), si incarica di ridipingere le pareti, quando il colore sbiadisce. Nel farlo, si può verificare un incidente, un secchio pieno di vernice può precipitare dall’alto e quasi sfiorare una delle inquiline. Il fatto è che il viola è colore ambivalente, da maneggiare con attenzione: non manca d’una sua spettacolarità visuale, ma al tempo stesso inquieta o respinge, quasi fosse percepito come luce rosa originale contaminata da un’ombra o (direbbe Goethe) da una tenebra.
È colore dell’inquietudine e della sospensione, come sa bene la gente di teatro – ma qui Sean Baker, regista indipendente (già autore di Tangerine, 2015), lo utilizza come colore-simbolo: nel Magic Castle l’uragano furioso della vita sembra sospeso, assopito in un’ingannevole bonaccia, ma è pronto a scatenarsi da un momento all’altro, coinvolgendo perfino la spensieratezza dell’infanzia. Il complesso spicca per il fatto stesso d’essere viola, senza altre specificazioni, rispetto agli edifici circostanti, che riproducono forme antropomorfe o “naturali” (per esempio: un chiosco per le bibite a forma di arancia), scimmiottando la figuratività dei fumetti. Insomma, vivere a Orlando significa quasi vivere in un fumetto, circondati dal rosa, ma il fumetto ha parecchie pagine in cui il rosa, contaminato d’oscurità, sfuma nell’inquietante viola.
Orlando è dunque una città fasulla. Ospita Disneyland, ma ne è fagocitata – fagocitata dal versante volgare (turistico, affaristico) del sogno che avrebbe dovuto rappresentare. Il Walt Disney nel cui nome fu ideata e realizzata era solo un lontano parente del mago delle metamorfosi, dell’Ovidio moderno, dell’uomo che aveva creato Mickey Mouse, di cui aveva scritto Walter Benjamin. Eppure i ragazzini del Magic Castle, la piccola Moonee e i suoi compagni di gioco, proprio in quanto bambini, possono ancora illudersi di vivere in un sogno in technicolor, dove il cibo è gratuito, un gelato si può sempre scroccare, si rivendono profumi da quattro soldi ai turisti e l’affitto è un optional.
I loro, però, sono giochi pericolosi. Guarda caso, prendono sempre di mira dispositivi tecnologici delicati e sistemi di sorveglianza. In questo, sì, sono parenti dei ragazzini di Jean Vigo, anche se il film si svolge in periodo di vacanze: fanno una gara a chi sputa più lontano, da uno dei ballatoi del residence, e ricoprono di sputi una macchina parcheggiata lì sotto, provocando la legittima ira della proprietaria; manomettono i quadri elettrici del complesso, lasciando per ore tutti all’oscuro; canzonano una ragazza dalle grosse tette, che prende il sole mezza nuda a bordo della piscina; tentano di accendere il fuoco nel camino d’una casa abbandonata, e provocano un colossale incendio, con tanto d’intervento dei pompieri (pretesto di spettacolo).
A parte il burbero ma in fondo comprensivo Bobby, quasi un padre vicario per Halley (la giovanissima mamma di Moonee), che lui protegge senza parere, quasi non esistono figure maschili, in quest’universo. Ormai, gli uomini, in quello che sembra davvero un passaggio epocale, hanno abdicato da qualsiasi responsabilità familiare e queste sono delegate alle madri single o alle nonne, bianche o di colore che siano. Allora, come nel caso di Halley, si profila naturalmente la scorciatoia della prostituzione, vero lato oscuro nel rosa del sogno; si risveglia l’efficienza moralistica, e i servizi sociali vorrebbero premurarsi di strappare Moonee alla madre e affidarla (“temporaneamente”) a un’altra famiglia: Moonee è troppo piccola per capire perché, ma fugge, in compagnia della sua migliore amica, verso un Castello disneyano che stavolta, malgrado la folla dei turisti intenti a fotografarlo, assume veramente il carattere di un’apparizione, di un sogno d’infanzia destinato a svanire.
Riferimenti bibliografici
G. D’Aloe, I colori simbolici: analisi di un linguaggio universale, Gabrielli editori, Verona 2004.