The End of the Tour (Ponsoldt, 2015).

David Foster Wallace è nato il 21 febbraio del 1962 e si è suicidato il 12 settembre del 2008. Pregni dello spirito di Wallace, abituato a decifrare la realtà attraverso il gioco di corrispondenze tra linguaggio e codice, potremmo ridurre la sua intera esistenza a una cifra unendo il giorno della sua nascita (21) al giorno della sua morte (12), come se il sistema numerico attraverso il quale siamo abituati a contare il tempo avesse voluto celebrarlo con un numero palindromo (2112), rivelandoci così quanto sia impossibile sciogliere l’inizio dalla fine perché, una volta giunti al termine di qualsiasi cosa, non si può che ricominciarla daccapo e in modo diverso.

Non è ormai più il tempo di riflettere sul clamore generato dalla notizia della sua morte che, in un’era di facili canonizzazioni, aveva trasformato la sua figura in quella di un maestro di vita (si veda, a titolo esemplificativo, la frammentazione del discorso tenuto al Kenyon College nel 2005 e pubblicato postumo in un piccolo libretto in cui il testo è presentato come un insieme di aforismi), né cercare nella sua scrittura le ragioni per le quali, in un’era di facili demonizzazioni, tante e tanti continuano a chiedersi quanto sia lecito leggere le sue opere in un contesto scolastico o accademico. Oggi è arrivato il momento di interrogarsi sulle ragioni per le quali l’intera opera di David Foster Wallace continua a dettare i parametri di un’aderenza nei confronti del mondo, in cui il termine aderenza non sta a significare l’assoggettamento del singolo verso un vocabolario univoco di senso, quanto il riconoscimento di una postura comune che è, insieme, visione e comprensione del mondo.

Wallace ci ha insegnato che il linguaggio è uno strumento a cui gli esseri umani sono sottomessi in maniera complessa e volontaria perché, come ricorda la lezione wittgensteiniana de La scopa del sistema (1987), non si può sfuggire alle parole e tutto è fatto di parole: tale condizione si dà nei termini di una simbiosi rispetto a un sistema di segni e suoni la cui funzione principale è quella di rendere comprensibili agli altri le emozioni, i gesti, le espressioni, le azioni e i movimenti di un singolo individuo. Wallace non ha celato i principali limiti del linguaggio ai suoi lettori, al contrario, ha lasciato che filtrassero dalle parole dei suoi personaggi. Soltanto per citare due esempi, si pensi alla riflessione sui figuranti che lo spettro di James Orin Incandenza affida al silenzio di Donald Gately in un passo di Infinite Jest (1996), oppure a “Caro vecchio Neon” (Oblio, 2004) in cui la narrazione si sofferma spesso sull’inesattezza e sull’inadeguatezza del linguaggio, ritenuto inoltre inefficace nel trasferire all’esterno (nel mondo) ciò che rimane inevitabilmente intrappolato all’interno (nel corpo).

Per risolvere il gioco di una comunicazione impossibile, Wallace ci ha spinti a pensare che il linguaggio è soltanto un secondo atto di comprensione e che, prima di parlare, dobbiamo affidarci e credere all’intuizione di ciò che da sempre siamo: il corpo, di cui ognuno di noi dispone, delimita le possibilità di azione nel mondo e, allo stesso tempo, determina responsabilità e meriti, qualità e mancanze, attitudini e posizioni. Il corpo non ha bisogno di riflettere per reagire a uno stimolo che preme indifferentemente verso una necessità o un desiderio: è l’amore che nasce come un organismo autonomo dentro il corpo di Barry Dingle in “Ordine e fluttuazione a Northampton” (1991) ed è il braccio di Roger Federer che sa esattamente di quanto inclinarsi per bilanciare equilibrio e potenza (“Federer come esperienza religiosa”, 2006). Il problema si pone nel momento in cui anche il corpo diventa parte di un processo di significazione che è strettamente connesso al bisogno umano di controllo.

Annientando la logica di un duplice dominio, Wallace ci ha aiutati a capire che, per colmare il limite che noi stessi siamo – come linguaggio e come corpo –, dobbiamo raccontare le debolezze che ci rendono ciò che siamo, perché soltanto così riusciremo a sentirci redenti dalla nostra disarmante condizione di incompletezza e rassicurati nell’impossibilità di una continua sorveglianza. Le confidenze atroci e triviali degli “uomini schifosi” (1999) hanno mostrato che non c’è alcun “sogno” nel quale credere e che l’unica speranza è quella di un risveglio nella consapevolezza di avere un corpo e un linguaggio: oltre la separazione di una pagina o di uno schermo, è questa la base sulla quale si costruisce un legame autentico e sincero con altri corpi, senza alcuna pretesa di negare le bassezze che pure fanno parte della nostra umanità.

In quasi tutte le sue interviste e, in particolare nelle celebri conversazioni con Larry McCaffery (1993), David Lipsky (1996) e Bryan A. Garner (2006), Wallace ha insistito sulla capacità della “buona letteratura” di creare un legame intimo e profondo in una maniera che sarebbe impossibile da replicare nella vita reale con la stessa intensità e potenza. Senza voler entrare troppo nel merito della questione, cioè senza interrogarsi su cosa sia la buona letteratura e su quanto sia vero che la lettura crei un’intimità irraggiungibile in altri contesti, possiamo provare a ipotizzare che l’opera di Wallace abbia attivato questa forma di comunicazione tra autore e lettore per mezzo del libro, innescando anche un secondo tipo di conversazione che ha coinvolto i lettori nella comprensione di quel meccanismo di aderenza di cui si parlava poco fa. Il mancato riconoscimento di questo passaggio da parte dello stesso Wallace ha costituito un punto di snodo nella sua vicenda umana, soprattutto se si considera che alcuni di coloro che lo frequentavano, oltre la scrittura, hanno accolto la sua ultima scelta con risentimento.

Ad aver scritto di questo sentimento, in maniera sincera e non edulcorata, è stato il suo amico Jonathan Franzen che, nel saggio-racconto “L’isola più lontana” (2011), scrive: «quella persona depressa si suicidò, in una maniera calcolata per infliggere il massimo dolore a coloro che amava di più, e noi che lo amavamo ci sentimmo traditi e pieni di rabbia» (Franzen 2012, pp. 38-39). Mentre era sull’isola di Masafuera, con una piccola scatoletta di legno a forma di libro che racchiudeva una parte delle ceneri di David Foster Wallace affidategli dalla moglie, Karen Green, Franzen cercava un modo per affrontare la decisione del suo amico senza tentare di trasformarla in qualcosa di diverso rispetto a quello che era stata. Si trattava dell’ultimo gesto di accettazione nei confronti di una scelta personale di cui aveva già delineato i caratteri nel corso dell’orazione funebre tenuta durante la cerimonia di commemorazione presso il teatro della New York University nel 2008, quando disse che Wallace era «sprofondato nel pozzo della tristezza infinita, dove le storie non arrivano più, e non riuscì più a venirne fuori. Ma aveva una bellissima, struggente innocenza, e ci stava provando» (Franzen 2012, p. 168).

Un paio di anni dopo il viaggio di Franzen, Karen Green ha pubblicato un contributo che risulta tuttora decisivo nella letteratura di lutto. Green ha raccontato il dolore per la morte di Wallace che, pur non essendo nominato nemmeno una volta esplicitamente, è presente in ogni pagina. Il passaggio più fisicamente straziante riguarda la descrizione del momento in cui lei ritrova il corpo del marito, dopo essere stata accolta dai due cani che le saltano addosso speranzosi che possa fare qualcosa perché lei «è quella che rimedia» (Green 2018, p. 80). Leggendo, si ha la sensazione ambivalente di essere estranei a quel dolore e di appartenergli perché si tratta di un dolore il cui referente non è più soltanto un corpo, bensì una mente lontana con la quale si è entrati in contatto, credendo e cedendo per ore al potere salvifico della letteratura.

David Foster Wallace ci manca, non perché non potremo mai sapere il modo in cui avrebbe commentato l’esplosione di Netflix, il fenomeno della pandemia, l’assalto a Capitol Hill, l’odio sociale e tutto ciò che avrebbe meritato la sua attenzione e la sua curiosità. Molto banalmente, Wallace ci manca perché ci sentiamo più soli nelle nostre miserie quotidiane che sono rimaste tutte condensate in un corpo bloccato sulla soglia di un trampolino, un corpo immobile sia per la vergogna di non riuscire a buttarsi in acqua, sia per la nausea generata dalla percezione carnale di ogni singolo resto di pelle che si era accumulato su quel bordo di plastica. Oggi sappiamo che quel corpo stava aspettando soltanto qualcuno che gli ricordasse che era lì per festeggiare il giorno del suo compleanno. E allora, buon compleanno, David. Quest’anno avresti compiuto sessant’anni.

Riferimenti bibliografici
J. Franzen, Più lontano ancora, Einaudi, Torino 2012.
K. Green, Il ramo spezzato, La nave di Teseo, Milano 2018.
D. Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Minimum fax, Roma 2011.
D.F. Wallace, Oblio, Einaudi, Torino 2004.
Id., Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006.
Id., La scopa del sistema, Einaudi, Torino 2008.
Id., Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009
Id., Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni, a cura di S.J. Burn, Minimum fax, Roma 2013.
Id., Il tennis come esperienza religiosa, Einaudi, Torino 2014.
Id., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2016.

David Foster Wallace, Ithaca 1962 – Claremont 2008.

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