È verso il basso, in terra e nel riflesso di uno specchio d’acqua – frammezzo al fluttuare d’erba o di altre materie, mai inanimate se soggette al moto sensibile della corrente e a quello, più impalpabile, del tempo – che si guadagna l’immagine del cielo. Simili visioni, che nella compenetrazione tra la dimensione terrestre, sensibile, e il possibile accesso a un completamente Altro, incorporeo, sembrano scioglierne il dualismo, sono ricorrenti nel cinema di Andrej Tarkovskij. E, del resto, il folle-savio Domenico, in Nostalghia (1983), sapeva bene che “una goccia più una goccia fanno una goccia più grande e non due”. Tale compenetrazione o sciogliersi del “due”, è al cuore del gesto artistico secondo Tarkovskij, se il fare dell’artista è quello di chi opera con mano ancorata alla terra, mentre l’altra è liberamente protesa altrove. È un’affermazione che può ascoltarsi dalla stessa voce del cineasta, nel film che suo figlio Andrej Andreevič gli ha dedicato, Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera, presentato a Venezia 76 e ora in sala.

Si tratta, come dirò in seguito, della biografia di un gesto e della visione di un artista, la cui opera, detto en passant, appare oggi il riferimento principale, sotterraneo o no, per il più interessante (e dimenticato in sede distributiva) cinema contemporaneo (Carlos Reygadas, Lav Diaz, Pedro Costa, Lisandro Alonso, oltre alle generazioni precedenti di Bela Tarr e Aleksandr Sokurov, ma anche Michelangelo Frammartino, come ha intuito Paul Schrader nella nuova edizione del suo Trascendental Style in Film).

Può colpire, a tutta prima, quanto “rare” siano, nel film, le immagini in cui è dato vedere effettivamente Tarkovskij parlare, almeno in rapporto alla quantità e all’eterogeneità di altre. Del regista, però, si ascolta pressoché costantemente la voce, che restituisce la propria biografia e visioni artistiche in un fitto monologo montato a partire dalle centinaia di ore di registrazioni effettuate in più occasioni. È voce che accompagna, spesso, altre immagini: dai film del regista, anzitutto, e poi lui stesso silente (alla moviola o sul set o nel quotidiano), materiali preparatori, foto di scena e non, le prove dell’Amleto teatrale, insieme a inquadrature girate oggi nei suoi luoghi di cinema e di vita (Russia, Svezia, Italia), e dove talora l’ondeggiare di steli in un prato, o un baluginio di sole in interni, richiama situazioni analoghe, ricorrenti della sua filmografia. Come se l’immaginario tarkovskijano potesse “riproiettarsi” o “sentirsi” altrove, nelle cose quali sono oggi, scoprire il mondo che si vede (e che il figlio vede) come anche suo (del padre). Si tratta, quindi, di restituire i luoghi e le immagini del mondo del regista, quelli in cui si sostanziava il suo gesto, e la visione che lo alimentava.

Il cinema come preghiera è in questo senso il racconto di quella visione, di quell’immaginario. Racconto che – come occorrerebbe in una “biografia” che sia “di un artista” – non può farsi limitandosi al puro biografico e al mero privato del quotidiano nei suoi eventi più minuti, e men che mai incedendo al pettegolezzo, né ancora, secondo un costume piuttosto diffuso nelle ricostruzioni di vite d’artisti, far sfilare i ricordi e i compianti di collaboratori e colleghi. Ma neppure può sciorinare una pura analisi di temi, forme, figure della sua produzione. E allora, Andrej figlio racconta visione e gesto di Andrej padre, o meglio: quel suo modo di essere regista, non ridotto a dati puramente biografici né a prassi, tecniche e forme del suo cinema, fa emergere dalla voce e dall’immaginario del padre. O in qualche modo lo evoca, lo riaccosta, come si diceva delle inquadrature che richiamano certe suggestioni del suo cinema, e talora creando delle rime raccordando le immagini dei suoi film e quelle di lui.

Del resto, come è noto, e il film ricorda, più personaggi di Tarkovskij anelano o trovano un ricongiungimento col padre: Kelvin che nel finale di Solaris (1972) si inginocchia al suo come “figliol prodigo” sulla soglia di casa, mentre il protagonista de Lo specchio (1975), padre distante dal figlio, rivede in questo la propria infanzia con un genitore lontano. Il che è in parte ciò che effettivamente ha vissuto Andrej Andreevič col padre regista, esule in quanto “persona non gradita” e non messa in condizione di lavorare in Unione Sovietica. E, a sua volta, Tarkovskij stesso, il cui padre, il poeta Arsenij, aveva lasciato il nucleo familiare.

Proprio le poesie di Arsenij, ne Il cinema come preghiera, punteggiano a più riprese il racconto di vita artistica di Andrej, una delle fonti del suo universo poetico unitamente alla religiosità della madre. Poesia e spiritualità, allora, “cinema come preghiera”, che articolano visione il fare artistico del regista, il suo gesto. Che si voleva, appunto, quello di chi lavora con una mano verso il suolo per lasciare che l’altra possa altrove librarsi, gesto paradossale come quello che Tarkovskij trova in altri artisti di riferimento – Bresson, Tolstoj, Bach, Leonardo – tutti definiti “Folli di Dio” e dunque più sani di altri, come le figure degli “Stolti in Cristo” care alla mistica slava (e al suo cinema: Domenico in Nostalghia, e già ai romanzi dostoevskijani: Myškin de L’idiota).

È il gesto di un regista che raramente inquadra i personaggi come svettanti al di sopra della linea d’orizzonte, e invece per lo più radicati o immersi nella terra (nell’erba che circonda la Zona, dove si distende lo Stalker, nel fango e nella fornace della campana in Andrej Rublëv). Salvo, poi, trovarli disancorati dalla forza di gravità, come nelle sequenze iniziali del sogno de L’infanzia di Ivan (1962) e del contadino sull’aerostato rudimentale in Andrej Rublëv (1966), nelle levitazioni di Solaris, Lo specchio, Sacrificio (1986).

Si direbbero, e continuiamo a dirle, “immagini paradossali”. Quelle, cioè, di chi esercita una mistica dello sguardo tenendolo però verso il basso, a contemplare limo e acquitrini dove però brulicano vite, minuscole, infinitamente piccole e specchio di chissà quali Altre infinitamente grandi, sfiorando pianissimo la materia, nel lento, carezzevole, carrellare della macchina da presa. Ecco: proprio “la carezza sul mondo di un’ala d’angelo confitta nell’obiettivo”, è l’immagine che Arsenij, in una sua poesia che sentiamo, tra altre, ne Il cinema come preghiera, associa al cinema del figlio. Oppure, “paradossali” sono gli spazi, indecidibilmente interni o esterni (sul limitare della “stanza dei desideri” di Stalker, può copiosamente piovere; e, in Nostalghia, l’isbah russa può benissimo trovarsi nella navata centrale dell’Abbazia – del resto priva del tetto – di San Galgano, in Toscana), dove coesistono, in quelle che Deleuze chiamava immagini-cristallo, piani temporali e dimensioni della coscienza (realtà, immaginazione, sogno, veglia, ricordo) eterogenei.

Da un certo punto di vista appare già paradossale, se si vuole, l’idea di un “cinema come preghiera”, almeno nella misura in cui è (o, in era analogica, è stato) fatalmente ancorato, come “mano stesa in terra”, alla registrazione del mondo fisico. Pure, il cinema era, secondo il regista, più di altre arti candidato a cogliere l’azione di quella invisibile ma effettiva «pressione del tempo» (Tarkovskij 1995, p. 112) sulle cose: il cinema sa vedere come “vive” le cose proprio perché soggette all’azione del tempo, e, prese nel suo corso, hanno esistenza fatalmente dinamica.

Del resto è, almeno in parte, il problema al fondo di tanta arte moderna e novecentesca: suscitare l’invisibile dal visibile (che era stato, ad esempio, tra gli interrogativi fondamentali di un Klee), e che però Tarkovskij accostava tenacemente in controtendenza rispetto alla secolarizzazione di quel tempo suo e nostro, e quasi assimilandosi a un pittore di icone (pittura-preghiera, quindi). Immagini paradossali (almeno per noi europei occidentali secolarizzati, viziati di dualismi), se il punto di fuga non sta sul fondo dell’orizzonte ed è nell’invisibile fuori del quadro, oppure è multiplo. E in fondo, che si elegga a propria preghiera il cinema (così “di massa” e così fatalmente ancorato al visibile/sensibile), non è poi più eccentrico che far segno dello splendore nelle icone: non coi colori (materia) e invece con l’oro (impalpabile). Nell’un caso come nell’altro, figure e cose sono «prodotti della luce» (Florenskij 1977).

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi, Roma 1990.
Id., Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977.
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1995.

Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera (Andrey Tarkovsky. A Cinema Player). Regia: Andrej A. Tarkovskij; sceneggiatura: Andrej A. Tarkovskij; fotografia:  Aleksey Naydenov; montaggio: Michal Leszczylowski e Andrej A. Tarkovskij; produzione: Film Capital Stockholm, Film i Väst, Film på Gotland, Gotlands Filmfond, Hobab, Institut International Andreï Tarkovski, Klepatski Production, Revolver; distribuzione: Lab 80 Film; origine: Italia, Russia, Svezia; durata: 97′.

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