Le analisi sulla vittoria di Trump alle elezioni presidenziali americane si stanno molto concentrando sul ruolo giocato dai social media. Angela Maiello ha fatto giustamente notare che questa vittoria segna il passaggio da un’idea partecipativa e orizzontale di comunicazione a un’idea verticale e broadcasting. L’esclamazione “You are the media now”, che il miliardario, e ormai alter ego di Trump, Elon Musk ha rivolto agli utenti di X, ha un significato recondito: vuol dire che gli utenti della rete sono il “materiale umano” necessario a far funzionare la macchina ideologica e propagandistica del sovranismo globale, di cui Trump è oggi il campione.
Alla luce di ciò che è successo, occorre chiedersi fino a che punto deve essere radicale la nostra critica all’uso politico dei media. La mia impressione è che in questo momento debba essere ancora più radicale che in passato. Negli ultimi dieci anni si è fatta strada l’idea che i media sono mediascape, come li ha definiti con una felice espressione Francesco Casetti. I media sono “paesaggi”, all’interno dei quali vengono creati spazi di vita: i media sono ambientali e analogamente tutti gli ambienti sono ormai mediali, come ha persuasivamente sostenuto Pietro Montani. Negli ambienti artificiali che costituiscono lo scenario mediatico delle nostre vite ci muoviamo in maniera analoga a come ci comportiamo negli ambienti naturali: individuiamo le affordances che orientano le nostre azioni; depositiamo nell’ambiente indici che sottolineano le affordances favorevoli ai nostri piani; surroghiamo la povertà di segnali spontanei con la produzione di segni convenzionali.
I social media sono un buon esempio dell’approccio “ecologico” che negli ultimi anni si è imposto a proposito dei media. Nei social media cerchiamo nicchie compatibili con le nostre preferenze; diamo risalto, attraverso il gioco delle condivisioni, ai contenuti che troviamo più interessanti; carichiamo nostri contenuti lì dove l’ambiente ci sembra carente di flussi informativi. Il tutto accade in una condizione di pluralismo delle forme viventi, per cui il nostro ambiente di vita insiste su un habitat che coincide, in tutto o in parte, con l’ambiente di altre forme viventi. La mia bolla mediale può diventare l’oggetto delle esplorazioni di altri utenti e lo stesso vale per gli altri.
Il punto è che la svolta ambientale dei media ha messo in luce una tendenza, quasi un tratto antropologico profondo: abbiamo una pulsione ad arredare secondo i nostri gusti l’ambiente in cui viviamo, in modo da renderlo, o farlo apparire, più adatto alla nostra permanenza e all’eventuale socializzazione con altri. È l’idea di un “interesse empirico” per il bello, che Kant formula nel § 41 della Critica della facoltà di giudizio. Può sembrare una banalità, ma il fatto è per l’appunto che lo spazio vissuto dall’uno si sovrappone allo spazio vissuto dell’altro. Lo spazio privato, domestico, dell’uno è lo spazio esplorativo, pubblico, dell’altro. Se tutti siamo coinvolti nella corsa ad arredare il nostro spazio privato, allora siamo tutti presi in una competizione per l’occupazione estetica dello spazio pubblico dei social media. Cerchiamo di ottenere il numero più alto di like e condivisioni. Vogliamo avere la sensazione che la rete si muova nella direzione da noi auspicata e promossa. Da questo punto di vista, l’algoritmo che adatta l’immagine dei social media ai nostri desideri può perfino essere visto come un meccanismo compensativo: offre una soddisfazione plausibile a una richiesta irragionevole.
Il problema è che non possiamo rimuovere dall’orizzonte dei social media la consapevolezza che il nostro ambiente mediale è anche uno spazio pubblico: abbiamo bisogno di esibire il mobilio di gusti, interessi e aspirazioni con cui l’abbiamo arredato. Siamo soggetti al bisogno di avvertire un senso di approvazione per il modo in cui abitiamo questo spazio insieme pubblico e privato. Come aveva compreso Emilio Garroni, la questione dell’esistenza di un sentire comune è diventata il problema della nostra epoca. La questione non può non toccare la politica, che trova nei social media una formidabile macchina di ricerca del consenso. Sarebbe però un errore credere, date le premesse, che vinca chi riesce ad affermare i propri gusti su quelli degli altri.
Lo può pensare forse l’illuminista ingenuo, che vede la banda di freaks a sostegno di Trump – razzisti, antisemiti, sostenitori del patriarcato, fondamentalisti religiosi, antiabortisti, no vax, complottisti di ogni risma – e si chiede se questa possa essere sul serio l’immagine del mondo attuale. Occorre uno sguardo critico più smaliziato. Non è operando una “ingegneria delle anime”, come avrebbe fatto un regime totalitario di vecchia marca, o inventandosi un bricolage delle pulsioni più regressive, che la destra ha oggi successo attraverso i social media. Se ottiene consensi, è piuttosto perché denuncia un presunto senso comune da combattere. A sostenere l’azione politica della destra reazionaria è la simulazione di una guerriglia semiologica contro il fantasma di un’egemonia culturale progressista.
C’è forse, allora, una possibile via d’uscita dall’impasse in cui ci ha infilati la vittoria di Trump, come sembra suggerire Roberto De Gaetano. Una guerriglia semiologica – concetto di cui Umberto Eco ha dato un’insuperata descrizione – non si combatte per determinare la forma degli ambienti mediali che abitiamo, ma il senso dei messaggi che ci informano sul mondo e sul modo in cui è possibile abitarlo. Dobbiamo ritornare alla classica definizione di Marshall McLuhan, secondo cui i media sono messaggi. I media sono messaggi perché non si esauriscono nelle prestazioni di vita che rendono possibili, ma restituiscono un’immagine del mondo e riattivano così uno sguardo sull’esterno, in vista di una riconfigurazione della nostra esperienza. D’altronde, è proprio quando un’immaginazione tossica è andata al potere che viene il momento di riappropriarsi della realtà.
Riferimenti bibliografici
U. Eco, Il costume di casa, La Nave di Teseo, Milano 2024.
E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura, Laterza, Roma-Bari 2005.
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.
P. Montani, D. Cecchi, M. Feyles (a cura di), Ambienti mediali, Meltemi, Sesto San Giovanni 2018.