Qualche giorno prima delle elezioni americane, stavo passeggiando per il Greenwich Village (mi trovavo negli Stati Uniti per impegni accademici) quando sento a distanza della musica. Mi avvicino e vedo su un marciapiede un gruppo di persone distribuite in file parallele pregare, cantare, ballare.
Non riesco a decifrare subito la scena, che mi sembra contenere elementi contraddittori: in primo piano una fila di giovani con ombrelli colorati e con uno striscione sul riconoscimento dell’aborto come “human right”, in secondo piano figure più adulte che espongono in alto un crocifisso ed una icona della Madonna. Percepisco solo in seguito che tra i due gruppi di persone c’è una transenna divisoria. I corpi dei manifestanti la nascondevano.
Si trattava di un sorprendente raccordo tra eterogenei, composizione di montaggio sociale, che diventava anche montaggio sonoro nella forma dell’alternanza di musica e preghiera. Quando i ragazzi in prima fila ballavano e cantavano con grande libertà “I Will Survive”, i fedeli in retro piano esprimevano in silenzio grande devozione, e viceversa, quando questi ultimi pregavano i primi li ascoltavano. Tornano in mente le parole di Tocqueville: «La civiltà anglo-americana è il prodotto di due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono combattuti: “spirito di religione” e “spirito di libertà”» (2006, p. 47).
Da questo montaggio tra elementi opposti scaturisce l’immagine dell’America più viva, dove la distanza oppositiva va di pari passo con la prossimità, senza trasformarsi in duello.
Vedendo questa immagine dell’America ho pensato che l’America comunque ce l’avrebbe fatta. E la ragione è semplice: la differenza, il riconoscersi reciproco degli eterogenei, l’idea di un melting pot culturale, attraversano le vene stesse dell’uomo e della società americani, dove si mescolano indipendenza di individui e vincolo sociale, fede e libertà.
Questa mescolanza costituisce il cuore stesso della democrazia, che prescinde di fatto dalle leadership politiche. Il centro della democrazia in fondo è in questa indipendenza, non nella delega elettorale. Nel sentimento di una uguaglianza talmente radicale da poter perfino prescindere dalla necessità di delegare qualcuno a rappresentarci. Perché tali e tante sono le occasioni per accedere ad una espressione di sé e del mondo che l’elezione non ha tra queste alcun privilegio particolare. Le percentuali dei votanti nelle elezioni americane sappiamo che sono molto basse.
Contrariamente a quanto si ripete qui da noi, questo è il contrassegno di un profondo sentimento democratico che non attribuisce a chi governa un potere né di farci del male né del bene particolare. Ma lo percepisce nella condizione transitoria di chi governerà per un po’, e che non potrà non tener conto di tutto ciò che comunque esiste intorno a lui.
Le cose non stanno del tutto così. Ma tale sentimento sulla possibilità di prescindere per curare i propri interessi (e dunque i propri desideri) da chi occupa transitoriamente il potere è un grande segno dell’orizzontalità democratica che caratterizza la civiltà americana. Anche perché se tali interessi venissero realmente minacciati, se le libertà venissero compromesse, la possibilità di reagire, di manifestare, di costruire mobilitazione sociale sarebbe forte. La libertà non nasce mai amministrata, ma sempre «in mezzo alle tempeste, si instaura tra le discordie civili» (ivi, p. 256). E la libertà è ciò che realmente conta per realizzare se stessi, riconoscendo agli altri lo stesso diritto di affermarla. Il sentiero è stretto, il terreno scivoloso, ma non ci sono alternative migliori.
Il problema è semmai un altro, rispetto alla retorica della democrazia minacciata, della democrazia in crisi. Anche perché la democrazia è di fatto la forma in cui la crisi stessa, che diventa il dispositivo del perenne cambiamento sociale, si istituzionalizza e viene controllata.
Il problema sembra piuttosto essere quello della declinazione “caratteriale” della democrazia stessa. Cioè il fatto che la democrazia si costruisce intorno – per usare un lessico aristotelico – all’ethos (il carattere) di chi la incarna piuttosto che intorno al mythos (all’intreccio), e al progetto politico che viene presentato.
Meglio ancora: se prima il “carattere” diventava l’eroe capace di guidare una intera comunità verso il futuro del “sogno americano”, sapendola difendere dai nemici (come molto cinema classico ci ha raccontato), oggi sembra esserci una divaricazione marcata tra la razionalità di un progetto per il futuro e l’essenza del carattere. Quest’ultimo si è trasformato in un catalizzatore potentissimo di sentimenti reattivi, veri e propri ri-sentimenti, capaci di convertire il senso di impotenza della cittadinanza nei confronti del presente in un riscatto puramente illusorio.
Per questo, nonostante il progetto politico sembri contrastare esplicitamente alcune categorie sociali, si ottiene comunque consenso proprio da quelle categorie. Il carattere – vera e propria “maschera” nel caso di Trump – fagocita il progetto. I dati elettorali sembrano per esempio confermare che l’elettorato femminile e le minoranze etniche hanno votato in forma massiccia Trump, il cui progetto politico non li favoriva.
I democratici sono rimasti incastrati nel gioco della “maschera” del rivale (come oramai accade da tempo e ovunque alla sinistra), agitando lo spauracchio della vittoria di Trump, e contrapponendo alla forza del “carattere” di quest’ultimo o un suo riflesso puramente oppositivo (l’anti-Trump, che conferma la centralità di quest’ultimo), o un’anonima progettualità politica, senza aver il coraggio e la forza di ridare anima al “sogno americano”, come in fondo era riuscito ad Obama.
Per questo, la domanda dove abbia sbagliato Harris è fuorviante, perché sembrerebbe attribuire a scelte specifiche le ragioni di una sconfitta. Le cose non stanno così. Kamala Harris non è riuscita a vincere, perché non è riuscita a contrappore ai ri-sentimenti catalizzati dalla maschera trumpiana, un gesto che li sapesse convertire in una nuova azione, che sapesse parlare ai sentimenti dell’America orientandoli verso l’apertura di un futuro.
Ma nonostante tutto, oltre Trump ed Harris, l’America comunque reggerà ad ogni ipotesi catastrofista, perché essendo nata democratica ha meno paura del carattere instabile, inquieto e strutturalmente caotico della democrazia stessa.
Riferimenti bibliografici
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.