All’indomani della seconda elezione di Donald Trump le bacheche dei social media – o almeno quella della bolla costruita per me dall’algoritmo – si popolano di contenuti che cercano di spiegare le ragioni più o meno profonde di questa, per certi versi incredibile, elezione. Si tratta quasi di una sorta di rigurgito autoriflessivo interno ai social: tra le tante riflessioni – sull’elettorato working class che vota Trump, sull’incapacità della sinistra americana e non solo di intercettare le reali esigenze di coloro che dovrebbe rappresentare, o sulla differenza rispetto al primo mandato in cui le persone scesero in piazze per protestare – ciò che emerge è che tra gli elementi che hanno portato all’elezione del tycoon ci sono proprio i social media. Roberto Saviano tramite le sue pagine ha decretato, con una card colorata che ritrae il nuovo presidente, la morte della democrazia per mano dei social, argomentando nella caption che la velocità dell’interazione, la conseguente superficialità delle informazioni e la sempre maggior importanza del numero di follower abbia portato alla morte del dibattito politico. La tecnologia non è neutrale, ci ricorda Saviano citando McLuhan, e il punto non è il modo in cui utilizziamo i social, ma il modo in cui, potremmo dire, essi utilizzano noi. Luca Barra, invece, dedica una storia Instagram che punta dritto al cuore di tutti noi Millennials: da un lato la famosissima copertina del Time del 2006 – in cui veniva eletta persona dell’anno “You”, ovvero quella cultura partecipativa che prometteva ai comuni mortali di poter controllare l’informazione – dall’altro la foto di Elon Musk a un comizio di Trump e uno screenshot del tweet dello stesso Musk, “You are the media now”, con cui festeggia l’elezione. Così è cominciata, così è finita, sintetizza Barra. 

Il rapporto tra politica e media è questione antica e stratificata. E tale complessità si rispecchia anche nell’intreccio onlineoffline che effettivamente può e deve essere analizzato per comprendere sì l’elezione di Trump, ma in generale il modo in cui il discorso pubblico si dispiega nel contemporaneo.  Proviamo semplicemente a mettere ordine tra i vari fili che compongono questa matassa.

Il primo e più evidente fattore da tenere in considerazione è di carattere economico-politico: l’acquisto dell’allora Twitter, ora X, da parte di Musk ha rappresentato un fatto epocale, per una ragione molto semplice, ma in parte sottovalutata. Musk non ha mai fatto mistero di voler utilizzare X in modo spregiudicato e totalmente parziale. Invocando la presunta libertà di parola, Musk ha trasformato la cosiddetta piazza 2.0 della rete in luogo ideale per la circolazione di contenuti misogini, razzisti, estremi e soprattutto di contenuti non verificati e molto spesso falsi. L’acquisto di Twitter ha permesso a Trump di ritornare sui social media e alla sua narrativa di circolare ed essere amplificata e favorita, non soltanto dalla mancanza di un processo di moderazione, ma dalla selezione stessa dei contenuti operata dall’algoritmo. E se molto clamore ha suscitato la posizione di Musk, non meno discutibile è quella di Zuckerberg che si è tenuto ben alla larga dalla mischia, scegliendo di non scegliere. Ora i social sono l’esito di quel processo di cultura partecipativa cominciata proprio con i blog e suggellati dal vecchio media (il Time) che riconosce la trasformazione in atto. Ma è evidente che nel momento in cui la cultura partecipata è diventata una forma di neo-broadcasting,  e non più ciò che emerge da una infrastruttura comune a tutti, il problema di chi gestisce e possiede “il canale” è decisivo. È più pericolosa l’azione diretta e spregiudicata di Musk, o quella silenziosa e nascosta di Zuckerberg? Difficile dirlo, certo è che forse la caduta di Twitter rappresenta un’occasione per decidere di prendere sul serio questo intreccio economico e geopolitico che si viene a creare, intreccio che non va soltanto regolato, ma culturalmente raccontato e condiviso.

In che modo fare ciò? Il tema è decisivo. La capacità di pervasività dei social media è dovuta innanzitutto al fatto che l’infrastruttura tecnologica, cioè il software di proprietà di Musk, di Zuckerberg o Zhang Yiming, si rende invisibile. Vale il principio ormai classico dei nuovi media, così come lo avevano formulato Bolter e Grusin, cioè quello della reciprocità tra ipermediazione e immediatezza. I social diventano efficaci e pervasivi quando abilitano azioni e interazioni, che pur essendo frutto di un sofisticato intreccio di hardware e software, ci appaiono immediate, “naturali”. Per certi versi i social media accelerano quel processo di interiorizzazione e naturalizzazione che è comune a tutte le tecnologie. Se postare il riassunto fotografico dell’ultimo mese ci appare come il momento naturale di quel processo di costruzione della propria identità, in un flusso senza soluzione di continuità tra la nostra vita e le bacheche digitali, ciò può accadere solo perché l’infrastruttura non ci appare più tale. Il vero problema politico, dunque, mi sembra essere non tanto quello della superficialità, a cui ci avrebbero condannato i social, quanto quello dell’invisibilità della struttura, di pensare azioni, dal basso e non dall’alto, per svelare ogni volta il carattere ipermediato di quel flusso in cui sempre stiamo.

Ciò non significa, tuttavia, non dover affrontare almeno un’ultima e altrettanto decisiva questione, quella, per così dire, dei contenuti. Dall’analisi delle interazioni sui social media – limitatamente al periodo novembre 2022-marzo 2024, quindi prima della candidatura di Harris –  emerge un dato molto interessante: nonostante Biden potesse contare su una comunità social media numericamente più ampia di Trump, le interazioni social (cioè reazioni, commenti, repost, like) generate dai contenuti del Tycoon sono quasi il doppio rispetto a quelle generate dalla campagna di Biden. E il dato ancora più interessante è che Robert Kennedy Jr., con una comunità 10 volte più piccola di quella di Biden ha generato lo stesso numero di interazioni. Come commenta il report, la natura polemica dei post, i commenti para-cospirazionisti alla guerra in Ucraina, vaccini e lobby, ha determinato, insieme ad una buona performance di TikTok, questo risultato. I numeri dunque sembrano confermarci qualcosa di cui facciamo normalmente esperienza e che intuitivamente cogliamo: la paura è ciò che mobilita maggiormente la partecipazione ai social media, a cui si può contrapporre solo sentimento altrettanto estremo, ovvero quello della speranza, come del resto accaduto nel caso dell’elezione di Obama o come in parte dimostra il ruolo svolto dai social media in quei contesti di protesta, in cui i diritti fondamentali vengono messi in questione (si veda il caso dell’Iran). Ciò che si instaura dunque è un circolo vizioso: la politica di destra intercetta la paura, che sui social trova luogo di propagazione virale e diventa dunque elemento imprescindibile di qualsiasi programma che miri all’egemonia. You are the media now in fondo significa proprio questo: tu, Trump, con la tua consistenza corporea, fatta di carne e immagini, non sei semplicemente un politico, sei un dispositivo mediale, un vero e proprio mondo, e nello specifico si tratta di un mondo in cui la grandezza americana è direttamente proporzionale alla forza con cui si elimina il diverso e si perseguono i propri interessi individuali.

Ovviamente il problema è quello dell’alternativa, un’alternativa che è politica e mediale insieme. Forse oltre a guardare ai nuovi media, dovremmo porre l’attenzione anche sui vecchi: da un lato sembrano voler perseguire un principio di neutralità che nei fatti è completamente saltato a causa delle nuove modalità di interazione; dall’altro per ovvie ragioni di opportunità economica, non fanno altro che rincorrere la paura. Basti pensare alla centralità che la cronaca nera assume nelle prime pagine digitali dei quotidiani italiani, trasformate in bacheche Facebook, semplicemente un po’ più ordinate. A chi spetta, allora, il compito di creare uno spazio in cui nutrire sentimenti alternativi alla paura?

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