Uno sguardo da fuori permette di vedere altrimenti, e meglio, ciò che accade all’interno. Spesso è un passaggio necessario, pena l’isterilimento dello sguardo. È quello che è accaduto al cinema, fin dalla sua nascita. La sua esperienza condivisa, la sua popolarità, hanno attratto non solo milioni di spettatori ma anche interpreti e studiosi non specialisti, i cui discorsi hanno contribuito a definire ciò che il cinema è stato, ciò che il cinema è. Il cinema è l’arte dei non specialisti. E questo è stato in definitiva un vantaggio, perché vanificando la controllabilità epistemologica dell’oggetto ne è uscito fuori qualcosa di più ricco ed intrecciato con la vita. Il recente volume di Roberto Calasso, Allucinazioni americane (Adelphi), riguarda il cinema. Sul quale dice alcune cose che meritano di essere pensate, all’interno di una prospettiva – l’unica degna di nota per il cinema – che non lo considera come l’assolutamente nuovo legato all’invenzione di un dispositivo tecnico, ma come l’attuazione di un modo transtorico di pensare le immagini e il loro senso. Solo considerandolo come attuazione di una dimensione mitologica (le star come figure del mito), o di un fenomeno ottico e asemantico come i fosfeni, o come determinazione di un più generale carattere “mentale” delle immagini, possiamo «renderci conto di quell’enormità che è il cinema» (Calasso 2021, pp. 102-103).

Calasso compie tre mosse:

  1. La prima ci riconsegna il cinema come il grande linguaggio che ha dato attuazione nel Novecento all’immagine-mentale, il figmentum: «La peculiarità del figmentum è il suo esclusivo carattere di immagine mentale» (ivi, p. 20); e che ha assecondato il processo di fantasmatizzazione del reale, il “feticismo totale”, ribaltandolo nella realizzazione del feticcio: «Il cinema mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici» e di dare corpo ad un sogno antico, «rendere cosa il fantasma» (ivi, p. 104).
  2. La seconda vede nel cinema l’arte in grado di riprendere i generi e le grandi forme di codificazione, che hanno abbandonato le arti tradizionali: «Nel nostro secolo è accaduto questo singolare fenomeno: che i Generi e le Convenzioni, evacuata la letteratura e il teatro, hanno migrato nel cinema. Anzi, più precisamente, si sono impiegati ad Hollywood» (ivi, p. 103).
  3. La terza, che dà il titolo al libro, riguarda Il disperso [America] di Kafka e quanto in quell’«allucinazione americana» risuoni il cinema, addirittura in una sorta di immagine germinale del musical che si ritrova nella scena del Grande Teatro dell’Oklahoma, quando vediamo «su una lunga piattaforma, centinaia di donne vestite da angelo, arrampicate ciascuna su un piedistallo di diversa altezza, nascosto dalle loro vesti. E tutte suonano lunghe trombe scintillanti d’oro. Questa è la scena originaria del musical» (ivi, p. 130).

Ora, queste tre mosse, che nel libro non sono intrecciate ma lasciate alla produttività disseminata di saggi vari, se messe insieme permettono di costruire una prospettiva che ci fa vedere il cinema in quanto di unico ci ha dato e ci dà. Per fare questo dobbiamo però aggiungere una mossa in più alle tre già citate. In definitiva la mossa decisiva, il gesto fondativo del libro, quello di utilizzare Hitchcock, e in particolare due film, La finestra sul cortile (1954) e Vertigo (1958), come intercessori di tale idea di cinema. Hitchcock è un autore chiave – già oggetto di interesse di Calasso – per il modo in cui traghetta le forme del cinema classico hollywoodiano, che hanno al centro l’azione, verso quelle del cinema moderno, attraverso la forma della relazione e l’immagine-mentale. È quello che sottolinea Deleuze: «Le relazioni, l’immagine-mentale, è ciò da cui parte Hitchcock» (Deleuze 2016, p. 244).

La struttura “duale” dell’azione viene superata dall’iscrizione di un “terzo” nella finzione, questo è il personaggio-spettatore: messo in condizione di paralisi rispetto all’azione, compensata dalla sua capacità di visione, nella Finestra sul cortile; o in una condizione di anomalia percettiva come lo Scottie di Vertigo, catturato dalla disseminazione di segni puramente mentali nei quali rimane impigliato. I segni non rimandano ad alcuna realtà, hanno una potenza di astrazione, come la spirale che associa la disfunzione ottica della vertigine e lo chignon di Madeleine. Ma ciò che più conta è che questa relazione associativa, che definisce il mentale al cinema, passa in Hitchcock per la costruzione di una indiscernibilità con i suoi personaggi intercessori, segnati da una qualche invalidità psichica, fisica, o morale. Ciò significa una cosa sola: lo spazio chiuso del cinema classico viene rotto definitivamente, aperto dall’inscrizione diretta dello spettatore nella finzione, attraverso l’assegnazione al personaggio di una eminente funzione spettatoriale. E questo colloca direttamente il cinema nella sua fase moderna e romanzesca. Il cui contrassegno è lo “stile libero indiretto” di cui ha parlato Pasolini, fondato sull’uso del personaggio come intercessore dell’autore. È il tratto che caratterizza il romanzesco letterario e cinematografico.

Perché va detta una cosa – lo sappiamo da Bachtin – il romanzo non è un genere tra gli altri, non è un genere convenzionale, ma opera una “romanzizzazione” dei generi classici e delle loro convenzioni, permettendo alla scrittura di giungere lì dove la semplice mimesi dell’azione non potrebbe arrivare, per esempio a riconsegnarci «una mente che in solitudine è intenta ad allucinare» (Calasso 2021, p. 117). È questa romanzizzazione come procedura di tipo estetico ad attraversare allo stesso tempo letteratura e cinema e a creare delle zone di consonanza ben più profonde della distinzione tra forme espressive, e che riguarda in definitiva le diverse modalità di messa in questione dell’azione, della sua forma e dei suoi valori. Ed è questo che rende cinematografico Il disperso [America] di Kafka, dove la connessione con il cinema non riguarda la mimesi dell’azione, ma l’invenzione di scene allucinate, come quella del Teatro dell’Oklahoma, che destrutturano profondamente lo stesso filo tenue della narrazione dei fatti che «potrebbero trovarsi in un qualsiasi romanzo naturalistico, alla Dreiser» (ivi, p. 116).

Dunque c’è romanzo e romanzo, cinema e cinema: c’è un romanzo cinematografico e c’è un cinema romanzesco. Come lo mettiamo in tutto questo il fatto che il cinema è anche il grande erede delle Convenzioni e dei Generi? Che precedono la forma romanzo e che si distanziano dalle immagini-allucinazione? I generi e le convenzioni classiche definiscono la traduzione estetica della prassi (secondo i dettami della Poetica aristotelica) e il cinema per buona parte della sua storia aurea, sicuramente hollywoodiana, a questo ha fatto riferimento. Ma l’immagine-mentale è necessariamente uno scarto da tutto questo, è l’incodificabile, è il propriamente cinematografico e sposa il romanzesco, kafkiano e non solo. È quello che Bazin aveva intuito parlando del cinema neorealista italiano: «L’estetica del cinema italiano, almeno nei suoi aspetti più elaborati e nei registi coscienti dei loro mezzi come un Rossellini, è l’equivalente cinematografico del romanzo americano» (Bazin 1999, p. 301).

Ora, lo scarto è individuabile in un punto preciso: nella costruzione del personaggio come intercessore dell’autore, della potenza del suo stile, visionario, mentale o allucinatorio. Se il personaggio resta nella finzione attualizzandosi nella sua prassi e non intercedendo per nulla e nessuno, il film si svilupperà secondo generi e convenzioni precise. Se invece inizierà ad errare fisicamente e mentalmente, lì inizieranno le avventure della modernità, il tratto romanzesco del cinema, il suo entrare in quelle “potenze del falso” di cui parlerà Deleuze. Hitchcock è in questo l’autore cerniera tra classico e moderno. Del primo usa le forme generiche e le codificazioni dell’azione ma per accedere a qualcosa d’altro, a quella potenza del “mentale” che diventa il senso proprio del suo cinema e di tutta la modernità. Hitchcock è centrale anche per essere un autore tra Europa ed America. Perché l’America è allo stesso tempo il luogo della grande codificazione di forme e generi, e la sede delle grandi allucinazioni, soprattutto quando è vista dall’Europa.

Allora, la straordinarietà del cinema è in qualche modo nell’essere tutto: sia nel riconsegnarci l’immagine-mentale della modernità, sia nel riattualizzare le forme dell’azione, dei generi e delle convenzioni. La forza del cinema, la sua “enormità”, è in definitiva nella capacità di riepilogo in un solo secolo dell’intera tradizione estetica e culturale occidentale (e non solo, per Calasso anche di quella induista), nell’aver saputo misurarsi ed attualizzare la mitologia, i generi e le convenzioni della tradizione classica, fino agli approdi visionari della modernità.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.

Roberto Calasso, Allucinazioni americane, Adelphi, Milano 2021.

Share