Mettere in scena il vissuto

di LAURA YSABELLA HERNÁNDEZ GARCÍA

Alcarràs di Carla Simón.

“Se il sole fosse un bracciante, non si alzerebbe così presto. Se il marchese dovesse trebbiare, saremmo morti di fame. Io non canto per la voce, né all’alba né al nuovo giorno, io canto per il mio amico che ha perso la vita per me”. Sono alcuni versi della cançó de pandero cantata dalla famiglia Solé in una scena di Alcarràs, film vincitore dell’Orso d’oro nell’ultima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino e secondo lungometraggio della regista catalana Carla Simón. Questi versi indicano sin da subito che ci troviamo davanti a una storia domestica e contadina, in cui aspetti come la dimensione popolare del racconto orale e il rapporto con la terra occupano ruoli centrali. In particolare, è interessante il modo in cui, per parlare della famiglia, la regista attinge ampiamente a vicende tratte dal proprio vissuto personale, tra cui la perdita della madre ad una giovane età e l’infanzia passata nella Catalunya rurale: questi elementi diventano materia espressiva per i suoi film, in un’ibridazione tra realtà e finzione tipica anche del nostro più recente cinema del reale.

Per Simón il processo di elaborazione del vissuto è accompagnato da un complesso lavoro di ricerca, in cui la regista utilizza materiali preesistenti, spesso estratti da film di finzione, per realizzare una mappatura iconografica in grado di descrivere atmosfere, paesaggi e personaggi realmente esistiti che devono essere ricostruiti. Il riuso delle immagini ha come obiettivo la riattivazione del ricordo soggettivo, che riesce a manifestarsi attraverso una reinvenzione e un riallestimento del reale attraverso la finzione. È quello che accade, ad esempio, nel suo primo lungometraggio, Estate 1993 (2017), che racconta la storia fortemente autobiografica di una bambina che deve imparare ad adattarsi alla sua famiglia adottiva. Il materiale raccolto serve a descrivere al meglio la personalità e fisicità da cercare negli interpreti, in particolare delle bambine protagoniste, per cui ci sono riferimenti a film come Ponette (Jacques Doillon, 1996) e Cría cuervos (Carlos Saura, 1976), mentre l’ambientazione rurale e la sua marcata cifra poetica spiegherebbe il richiamo esplicito alla filmografia di Alice Rohrwacher (Corpo celeste e Le meraviglie).

Come suggerito da Daniele Dottorini a proposito del cinema del reale italiano, è grazie a questa particolare visione poetica che la possibilità di raccontare risulta funzionale a mantenere viva la memoria. Ciò è più evidente nei cortometraggi, che sono per Simón occasioni da dedicare alla sperimentazione formale – le riprese fatte con la macchina a mano, le inquadrature ravvicinate, l’utilizzo di filmati domestici e di dispostivi analogici –, rispetto allo stile più classico, documentaristico, dei lungometraggi, dove sono ricorrenti i lunghi piani-sequenza.

Llacunes (2016) è un cortometraggio la cui genesi è legata al film Estate 1993. Durante la stesura della sceneggiatura di quest’ultimo, Simón avverte la presenza diffusa della madre, che però si presenta come un’apparizione fantasmatica, della quale scopre di conservare pochi ricordi. Il desiderio di ricostruire la figura materna porta la regista a mettere in atto un’operazione molto intima in cui la voce off di Simón che legge alcune lettere scritte dalla madre è accompagnata dalle riprese dei luoghi, ora svuotati, da cui le lettere sono state spedite. Così la regista segue il modello proposto da Chantal Akerman in un film come News from Home (1977), e che altre registe hanno continuato a sviluppare dopo di lei, laddove, come ci ricorda Alma Mileto, «il cortocircuito si fa tanto più complesso quando a recitare il testo epistolare non è il suo autore o quando, più sottilmente, la voce dell’“io” e del “tu” si fondono fino a confondersi». La ricerca fatta per Llacunes confluisce poi in Estate 1993, che cita alcune frasi estratte dalle lettere della madre.

Lo scambio epistolare, questa volta tra due amiche, è al centro anche del cortometraggio Correspondence (2020), realizzato in collaborazione con la regista cilena Dominga Sotomayor. Le lettere di Sotomayor si strutturano come commenti alle immagini di archivio della propria famiglia, che sono intrecciate con la Storia del paese cileno. Nelle sue lettere al contrario Simón decide di usare immagini del presente, riprese però nostalgicamente con una cinepresa Super 8, per interrogarsi sul vuoto intergenerazionale lasciato dalla recente morte della nonna. Ad emergere è qui un bisogno di racconto che si fa urgente quando il ricordo minaccia di scomparire e sembra poter ritrovare una forma solo attraverso il cinema.

Gli elementi del cinema di Simón fin qui emersi sono fortemente presenti nel suo film più recente. Alcarràs è la storia di una famiglia di agricoltori impegnati in quella che sembra essere la loro ultima estate dedicata al raccolto, perché le terre dove hanno lavorato e vissuto per generazioni saranno ora usate per l’installazione di pannelli solari. La riflessione che lega il progresso tecnologico alla scomparsa dell’agricoltura ha delle chiare ricadute sociali e politiche, ma lo sguardo verso il mondo in declino della campagna catalana non è mai nostalgico né romantico: ciò che interessa alla regista è sperimentare la molteplicità degli accessi possibili al dominio del reale.

Si pensi, in tal senso, alla fase di preproduzione del film: i personaggi di Alcarràs sono interpretati da attori non professionisti, selezionati grazie a un intenso lavoro di casting svolto durante le feste della comunità locale. Per la regista era di grande importanza ritrovare nei personaggi l’espressione diretta del territorio. Si tratta di una scelta artistica ma anche politica, che certamente tiene conto della dimensione fisionomica della realtà che è, per  un autore come Balázs, l’essenza del cinema: «I volti rivelano la classe, impressa nella fisionomia degli individui; non rivelano l’uomo nella classe sociale, ma la classe sociale nell’uomo». Ciò è particolarmente evidente nei volti segnati dal sole, dalla vita all’aperto, dal lavoro nei campi. Una volta selezionati gli attori della famiglia Solé, questi hanno convissuto per alcuni mesi con l’obiettivo di costruire tra gli interpreti delle “memorie condivise” basate sul passato dei personaggi, rendendo così più realistiche le dinamiche relazionali.

Inoltre, durante la fase delle riprese, la sceneggiatura è stata concepita come un testo semi-aperto al contributo degli interpreti. In questo senso, Simón definisce errores afortunados gli esiti positivi di una lunga preparazione che consente di accogliere all’interno del film anche l’aleatorio e l’imprevisto. La vita collettiva della comunità del paese continua poi ad essere ripresa più volte nel corso del film, e la realtà delle feste popolari, delle serate tra ragazzi e delle proteste degli agricoltori viene costantemente iniettata nell’apparato finzionale.

Rispetto al lungometraggio Estate 1993, che presenta un ritratto molto intimo ancorato allo sguardo di un unico personaggio, Alcarràs è un film corale e in questo senso dà vita ad un progetto più articolato. Il film è interessato ad esplorare come il cambiamento esterno metta alla prova i legami all’interno della famiglia, in un continuo crescendo di tensione che ricorda l’operazione del film d’esordio della regista argentina Lucrecia Martel, La ciénaga (2001). Come nel film di Martel, le scene sono costruite in funzione della profondità di campo a livello visivo e sonoro, con più azioni che si svolgono contemporaneamente. L’irregolarità acustica del campo sonoro è raddoppiata nel campo visivo dall’instabilità del quadro, mediante l’uso della macchina a mano. Così avviene per esempio nelle scene dedicate al raccolto, dove più conversazioni tra diversi membri della numerosa famiglia avvengono allo stesso tempo, saturando il campo sonoro in cui persistono i rumori dei giochi dei bambini e la musica che ascoltano i figli in età adolescenziale.

Sullo sfondo di questa partitura acusticamente densa, si distingue appena un momento solista, quando la zia più anziana della casa racconta una delle sue tante storie, riannodando il film alla dimensione arcaica dell’oralità. Nel quadro delle relazioni dialogiche allestite in profondità di campo, l’intervento monologante dell’anziana signora si rivolge a tutti e nessuno, indugiando su fatti non conosciuti e persone che non ci sono più, tra memoria e puro piacere del racconto.

Alcarràs è dunque finora la prova autoriale più intensa e complessa di una cineasta che vuole essere vicina alle cose che racconta, un’artista che pensa il reale come un sistema di relazioni da cui l’istanza filmante non prende mai le distanze, ma ne fa parte a pieno titolo.

Riferimenti bibliografici
B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1987.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Udine 2018.

A. Mileto, “Io” o “te”. Lo spazio vocale dell’epistola, intervento nell’ambito del convegno internazionale “Forme della spazialità”, a cura di L. Bandirali, A. Floris e M. Gargiulo, Università di Bergen, Università di Cagliari, Università del Salento, 26/08/2021.

Alcarràs. Regia: Carla Simón; sceneggiatura: Arnau Vilaró e Carla Simón; fotografia: Daniela Cajías; montaggio: Ana Pfaff; musiche: Andrea Koch; interpreti: Jordi Pujol Dolcet, Anna Otin, Xènia Roset, Albert Bosch, Ainet Jounou; produzione: Avalon Pc, Elastica Films, Vilaüt Films, Alcarràs Film Aie in coproduzione con Kino Produzioni; distribuzione: Wonders Pictures; origine: Spagna, Italia; durata: 120′; anno: 2022.

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