In una settimana la letteratura italiana ha perso due figure di primo piano: il 27 marzo è morto il poeta Mario Benedetti, il 22 marzo era morto Alberto Arbasino. Tra i pochi autori accolti, viventi, nei “Meridiani” (due volumi a cura di Raffaele Manica, 2010), Arbasino è stato una figura complessa, a tratti contraddittoria. Immerso nel pantheon della propria formazione culturale, fatta di classici, ma capace di anticipare svolte importanti. Adepto della citazione colta, incline al sospetto verso la trama comune a molti autori sperimentali degli anni cinquanta e sessanta (tratti che non sono invecchiati bene); pioniere di opere che oggi si direbbero ibride, affascinato dal pop quando non dal nazional-popolare come sono oggi tutti, o quasi.
Postmoderno ante litteram o erede dell’espressionismo gaddiano, sicuramente capace di fiutare l’aria, di intuire l’arrivo ai piani alti della letteratura della non-fiction o la performativizzazione dell’opera letteraria, Arbasino progettava il futuro pur restando nel passato, si potrebbe dire. Faceva critica sociale e di costume – il naso ben piantato nella realtà italiana – rivestendola di erudizione, di trovate linguistiche, guidato dal piacere per la scrittura – la scrittura come jouissance – che tante volte ha difeso («La differenza fra scrittori e letterati!… Per chi inventa, e ha un’originalità, ha uno stile, è una festa!», si legge in Fratelli d’Italia). In questo senso davvero, come si è definito lui stesso, nipotino di Gadda.
Proprio il principio di piacere, forse, è alla base della scrittura arbasiniana, nel bene e nel male. Il godimento che egli traeva dal testo era uno degli elementi che lo spingevano a tornare periodicamente sui suoi scritti (le diverse edizioni di Fratelli d’Italia, Super Eliogabalo, L’anonimo lombardo, sempre con variazioni e ampliamenti), barthesianamente un testo scrivibile, ri-scrivibile per sempre, ma dall’autore, non dal lettore. E in questo godimento ha origine anche il senso di compiacimento che emerge da certe pagine (le meno riuscite?) — la scrittura divenuta stile, la creazione (di senso) abortita in masturbazione. Ma quando resisteva a questa tendenza, Arbasino era un grande autore.
Insofferente alla tradizione letteraria italiana che, come scrisse in una pagina celebre nell’Anonimo lombardo, trovava così distante dallo stile ironico e brillante degli inglesi, Arbasino nei suoi romanzi diventa quasi sterniano: costruzioni monumentali (l’ultima edizione di Fratelli d’Italia conta più di milletrecento pagine), quasi senza trama, tenute insieme dalle digressioni, dall’impianto stilistico: gusto per neologismi, rese fonetiche di parlate regionali, termini stranieri trasportati di peso nel testo con effetto straniante. Ma lo stile di Arbasino fu anche contaminazione fra generi. Carlo Feltrinelli ricorda le parole con cui il padre aveva accolto Fratelli d’Italia: «Questo di Alberto Arbasino è a mio avviso anzitutto un libro, che alcuni leggeranno come un romanzo, altri come un saggio, altri forse ancora come un pamphlet o un repertorio giornalistico» (Feltrinelli 1999, pp. 248-9).
Il libro (1963) è un alto esempio della scrittura di Arbasino: un viaggio on the road che fa il verso ai grand tour romantici (e a Kerouac), enciclopedico nell’accumulare digressioni su argomenti disparati, i cui personaggi hanno sacrificata la loro profondità psicologica (interiore) in favore di una ricognizione dell’Italia del boom economico. I protagonisti infatti non sono tanto Antonio e l’Elefante, quanto la massa, il costume: lo spirito del tempo, forse. Un tempo che Arbasino mostra mentre sta per tramontare, quando la vernice candida si è scrostata lasciando intravvedere lo stato putrescente del sepolcro sottostante e si fa strada la stagione delle contestazioni (e sempre nel ’63 esce Marcovaldo, che a sua volta, con toni certo diversi, mostra un identico sfaldarsi dei miti del boom).
Una prospettiva molto congeniale ad Arbasino, del resto, già dallo stile era assiso in un’epoca finita (il modernismo) ma (o proprio per questo?) capace di guardare con lucidità l’epoca a venire, e anche di infilarcisi dentro. Aveva un gusto decadente un po’ alla Wilde, e anche Wilde seppe gestire più generi, condensarli, riciclarli e così descriverci il tempo in cui si muoveva. Perfettamente decadente è Super Eliogabalo, sin dalla scelta del nome di questo imperatore moderno. E arbasiniana è la sfrenatezza del racconto, delle situazioni raccontate. Ancora, spaccato di una nazione, stavolta attraverso la deformazione grottesca. E, ancora, un romanzo che si fa antiromanzo, un romanzo che punta a essere qualcos’altro, qualcosa di più e qualcosa di meno: saggio, reportage, divagazione (il Gruppo 63 senza la vocazione museale, insomma).
La stessa logica seguita, alla rovescia, dall’Arbasino più tardo, quello che ottiene i risultati più entusiasmanti in reportage e saggi (narrativi, sempre). In queste opere la vocazione cosmopolita dello scrittore emerge pienamente, sin da molti titoli: America amore, Lettere da Londra, Le Muse a Los Angeles, Pensieri selvaggi a Buenos Aires. È qui che si fa più chiara la natura dell’opera arbasiniana: i reportage di Arbasino sovrappongono alla presa diretta della narrazione il tempo lungo della letteratura e della cultura; il presente si carica di riferimenti attraverso le citazioni, gli elenchi, in un processo di accumulo che diventa flânerie letteraria. Altrove, invece, è il montaggio a distanziare gli eventi registrati. Dominano l’ipotassi, l’accumulo e le giustapposizioni, lacerando il continuum della percezione, isolando i frammenti di presente e distanziandoli tra loro. In qualche modo, così, assolutizzandoli, portandoli in quello stesso spazio dove Arbasino pone la cultura che pervade tutte le sue pagine.
Sono tecniche che rappresentano bene Arbasino, che entra nel presente, sì, ma standone a distanza, in un atteggiamento ironico che ha fatto scuola: c’è una congerie di autori colti o coltissimi, che hanno fatto della sprezzatura snobistica la propria cifra, indulgendo sì al pop, ma con lo sguardo ironico di chi sa di appartenere a un’altra razza. È un’ironia moralistica, spietatamente classista anche, certo priva di ogni pietà creaturale (a differenza di un Eco, per dire). Ironici con tutto, insomma, meno che con loro stessi, sempre pronti a gettare Lo Sguardo Definitivo. E qui si mostrano pessimi allievi del maestro, perché Arbasino, scrivendo e riscrivendo, portando sì l’attualità nello spazio della tradizione letteraria ma anche sbattendo quella tradizione nel pieno dell’attualità, era in grado di oscillare continuamente tra i due poli, e proprio per questo capace di dare uno sguardo diverso. A volte fastidioso, forse, ma diverso.
Invece sembra che molti oggi ne imitino solo i gesti esteriori, la sprezzatura, o quelli peggiori, come certe adesioni a una logica spettacolarizzante senza velleità da guastatore, capace di utilizzare il sistema a proprio vantaggio. Come quando Arbasino si candida e viene eletto con il PRI in pieno Pentapartito, come quando conduce Match su Rai 2, in qualche modo archetipo delle litigate furiose sui divani di Maria De Filippi, solo che, invece di analfabeti funzionali, a scontrarsi (e il conduttore non lesinava spintarelle in tal senso) c’erano intellettuali di fama (ma va anche detto che erano gli anni del dibattito sull’Effimero e dell’estate romana). Anche in questo Arbasino fu maestro e forse precorritore di tempi, non sarebbe onesto negarlo. Ma oggi nessuno o quasi, giustamente, ricorda questi aspetti, come domani nessuno ricorderà gli epigoni di Arbasino.
Resta invece la sua scrittura mutevole, instabile, che fa di suoi libri al contempo documento e monumento, attualità e letteratura, romanzo e saggio — ennesima ambivalenza dell’ironia arbasiniana. Resta lo stile, incarnazione formale del suo sentirsi esponente di una generazione finita, o sempre sul punto di finire. E che però alla fine non arriva mai, come Cent’anni di solitudine: «Senza terminare di terminarsi mai» (Marquez 1987, p. 967). E quando poi termina sul serio lo fa all’improvviso, in modo inatteso, come è giunta la notizia di questa morte. Restano i libri infiniti di Arbasino, in perenne attesa di un’ultima riscrittura che non arriverà più.
Riferimenti bibliografici
A. Arbasino, Fratelli d’Italia, Adelphi, Milano 1993.
C. Feltrinelli, Senior Service, Feltrinelli, Milano 1999.
G. G. Marquéz, Cent’anni di solitudine, in Id., Opere, a cura di Rosalba Campra, Milano, Mondadori 1987, vol. I.
Alberto Arbasino, Voghera 1930-Milano 2020.