Uno dei pregi del libro di Luca Pagliari, Zona Cesarini, uscito di recente in nuova edizione per i tipi di Giunti, è di mettere in chiaro che la vicenda umana di Renato Cesarini non può essere ridotta alla sola storia di uno spumeggiante calciatore prima ed allenatore poi, ma riguarda anche una lunga epoca che il personaggio messo sotto i riflettori attraversò senza freni e senza risparmio, un’epoca ampia nello spazio non meno che nel tempo, perché sul suo cammino l’Italia e l’Argentina s’intrecciarono in un arabesco insolubile che fece di lui un brillantissimo inquieto, capace di calamitare contagiose simpatie, ma sempre bisognoso di rimescolare le carte e fare fagotto nel momento più inatteso, come spesso capita a chi non esita ad invocare il futuro per disegnare una patria interiore che il solo passato restituirebbe continuamente dimidiata.

La fama di Renato Cesarini in Italia è legata quasi esclusivamente all’espressione “zona Cesarini”, mutuata nel linguaggio comune dalle cronache sportive di un suo gol fatto allo scadere del tempo con la maglia della nazionale italiana contro l’Ungheria a Torino, il 13 dicembre 1931: una partita vinta allo scadere per 3-2 divenne occasione involontaria per coniare un’espressione divenuta gentile e succosa antonomasia per ogni matassa che si sappia sbrogliare nell’ultimo momento utile.

Nato nel 1906 in una frazione di Senigallia, a meno di un anno Renato emigra con i genitori a Buenos Aires, salpando da Genova a bordo del “Mendoza”, una nave per emigranti malfamati che dopo quasi un mese di navigazione non restituisce vivi e vegeti alla terra promessa tutti quelli che avevano fatto la scommessa di salirci. Il padre sbarca il lunario facendo il suo mestiere di calzolaio nel quartiere Palermo e Renato viene su forte e curioso di tutto, in un teatro delle ibridazioni in cui si parla “lunfardo”, lo slang di strada fiorito a Buenos Aires dalla fine dell‘Ottocento da influenze italiane, spagnole ed ebraiche. Sfrontato fin da ragazzino, Renato fa lunghe puntate fuori dal suo quartiere e inizia a esibirsi in strada come acrobata e giocoliere, tanto da essere scritturato dall’impresario di un circo itinerante.

Dal circo, Renato Cesarini passò al calcio senza mai smettere di giocare e poiché a volte chi ti guarda t’inchioda a un’identità con cui ancora non avevi fatto veramente i conti, con la maglia del Chacarita Juniors, il quartiere del cimitero platense, divenne popolare con il soprannome di “El Tano”, l’italiano. Ma nella vita del giovane Renato, come di tanti altri ragazzi che hanno dichiarato guerra alla miseria e alla disperazione, alle alchimie del pallone si affiancano quelle del tango, «un pensiero triste che si balla», come scrisse Enrique Santos Discépolo. Cesarini è sempre in giro con la sua chitarra, cosí come il fraterno amico Raimundo Bibiani Orsi, “El Mumo”, di poco più grande, non si separa mai dal suo violino. Dopo le Olimpiadi del 1928, in cui militò nella rappresentativa calcistica argentina, Orsi fu acclamato in patria come la stella di Amsterdam, ma la sua, come quella di Cesarini, era una stella capace di propagare luce e calore a condizione che il campo di gioco fosse la vita, tutta e nuda, e che il giocatore fosse l’uomo capace di raccoglierne la sfida, cantando con passione lacerante tutta la sua inadeguatezza nel fugace attimo di gloria del gol. Istrione, instancabile affabulatore, Renato Cesarini, da chi ci aveva giocato fuori e dentro il campo, fu sempre raccontato nei modi più lusinghieri come un assoluto mattatore: che fossero storie di caccia, di pesca o di calcio, la sua ars narrandi era così avvolgente da far desistere chi lo ascoltava dal chiedersi se fosse tutto vero. Si potrebbe parafrasare quel che Ettore Della Giovanna disse a proposito di Curzio Malaparte: “L’ha detto Cesarini ed è diventato vero”.

«C’è una grande coerenza nelle magie che gli vediamo fare in campo e nelle cose che combina nella vita di tutti i giorni» osservò Virginio Rosetta, suo compagno di squadra alla Juventus, in cui Cesarini, giunto a Torino nel 1930 poco dopo l’amico Orsi, avrebbe vinto cinque campionati consecutivi. E nella Torino perbenista di quel periodo, in cui era giunto sulla sponda della società che rappresentava con orgoglio l’elite locale in opposizione alla squadra operaia del Torino, il ragazzo di Senigallia ubriaco del tango dei bassifondi di Buenos Aires fece una missione dell’istinto di dissacrare quell’ambiente cosí austero, che prendeva forma nella disciplina militaresca che il barone Mazzonis pretendeva dai giocatori. Cesarini passeggia per piazza San Carlo con una scimmietta al guinzaglio, trent’anni prima che Gigi Meroni concedesse il bis con una gallina e ad un inamidato raduno sociale si getta vestito in piscina fingendo di non saper nuotare, per il divertimento di vedere chi dei compagni di squadra lo avrebbe per primo riportato a galla. Cinque anni di formidabili vittorie che furono continuamente accompagnate da pesanti multe e ammende disciplinari, che Cesarini incassava senza battere ciglio né lamentarsi, considerandole una sorta di tassa sulle libertà cui mai avrebbe rinunciato. In campo regalava poi così tanta bellezza da trovare in figure incredibili come l’avvocato Vittorio Tapparone mecenati pronti a pagare il prezzo dell’insubordinazione.

Nell’estate 1935, vinto la Juve il quinto scudetto consecutivo, Carlos Gardel muore in un incidente aereo e viene sepolto alla Chacarita, mentre al largo di Genova s’inabissa col suo idrovolante il vicepresidente della Juventus Edoardo Agnelli. Poco dopo Orsi, il Paganini del fútbol, anche Cesarini decide di fare le valigie e torna a Buenos Aires, dicendo di lasciare la Juventus solo perché ogni periodo della vita ha un inizio e una fine. Cesarini ripeterà continuamente la storia del nuovo inizio, provocato da chi desidera attrarlo a sé, come dal desiderio di raccogliere ancora un’altra sfida. Si lascerà cullare dal richiamo di un nomadismo tra una patria in cui era nato e quella in cui era cresciuto, mostrando nella sua nudità il cuore di tenebra di un uomo che, mentre proiettava intorno a sé un carisma irresistibile, non di meno non poteva immaginare che sul campo di gioco Renato e El Tano potessero smettere di sfidarsi. E don Renato era già per vocazione esistenziale uno dei “caballeros de la angustia”, come furono chiamati i giocatori del River Plate per esaltarne la peculiare capacità di tessere con pazienza una ragnatela in cui ogni avversario restava invischiato. “La Máquina“, viene ribattezzata la squadra con cui Cesarini vince due titoli consecutivi da giocatore e poi altri due di fila da allenatore. La palla è come una fidanzata, bisogna curarla, accarezzarla e mai prenderla in giro.

Nel 1946 Cesarini accetta la proposta di allenare la Juventus, sono gli anni del Grande Torino e l’ultimo campionato vinto dalla Juve è ancora quello del 1935. Prima di lasciare l’Argentina, sposa l’attrice Yuki Nambá, che lo seguirà in Italia. È Cesarini a lanciare il giovanissimo Boniperti in prima squadra e ad incoraggiarlo, in una partita d’allenamento in cui gioca nella squadra delle riserve, a fare un tunnel a Carlo Parola, uno dei senatori. La cosa riesce, Parola s’infuria e mostra quanto la pedagogia di campo di Cesarini sia capace di infondere forza e coraggio per mettere a nudo il re con il gesto cui non se ne può opporre alcun altro. La vita di Cesarini fu in effetti proprio come un tunnel ben assestato: qualcosa che con disarmante leggerezza impone d’inchinarvisi perché, una volta riuscito bene, automaticamente si depura dal rischio residuale della sbruffoneria accessoria.

Dopo due anni ad allenare la Juventus, nel maggio 1948 il ritorno al River, il desiderio di concentrarsi sull’insegnamento della tecnica ai più giovani. Proprio lui che non ebbe figli, in Argentina fu il padre putativo di più di una generazione di calciatori, che restarono devoti all’innata brillantezza pedagogica di don Renato. Primus inter pares un ragazzino di San Nicolás, che nel 1952 fa un provino per il River per cui si lagna d’aver giocato male. E in effetti gli osservatori volevano scartarlo, ma poi don Renato dice che vuole rivederlo per un secondo provino e così succede. Da allora saranno sfracelli e quel ragazzino, che si chiama Omar Sivori, fino al 1957 incarnerà alla perfezione la filosofia platense del fútbol espectáculo.

Appena 50 anni dopo, proprio Omar Sivori, contattato da Luca Pagliari, diverrà suo malgrado il saggio Virgilio che accompagna l’autore in un percorso troppo profondo per condurre semplicemente alla stesura di un libro su Cesarini, permettendo piuttosto di abbattere innumerevoli confini invisibili e arrivare nel giardino rigoglioso di un romanzo biografico. Le memorie personali di Omar Sivori, del suo corpo antico e delle sue antiche parole, giocano a nascondino con la bella prosa della diacronia della vita di Renato Cesarini sullo sfondo di quegli anni in Italia e in Argentina e da questo il libro trae un respiro asintotico, che annuncia di non poter non diventare ogni volta più coinvolgente. All’autore – e di rimando ai lettori – resta implacato l‘amaro in bocca del fatto che, per la morte del Cabezón, ai sopralluoghi fatti nella terra natia di Cesarini, quindi Senigallia e dintorni, non poterono seguire quelli programmati in Argentina. Cesarini tornerà in Italia poco dopo l’arrivo di Sivori alla Juventus, stavolta senza la sua Yuki, che 50 anni dopo, a telefono con Pagliari, non esiterà ad affrontare rimorsi e nostalgie chiamando Renato l’uomo della sua vita che per lei non è mai veramente morto. Torna a vincere nella Torino del boom economico: le strade in cui aveva passeggiato destreggiandosi con una scimmietta al guinzaglio tra i tramways a cavallo sono ora dominio delle vespe e delle 500. A Natale 1960 le dimissioni, inizia a preparare il prossimo nostos, ma prima gli riesce di allenare per alcuni mesi il Napoli e si trova per la prima volta come avversario il suo Omar, il figlio avuto dal campo.

Nel capolavoro di Jean-Marie Straub Nicht versöhnt (Non riconciliati), che racconta l’epopea dell’agiata famiglia Fähmel attraverso il Novecento e fa della sua rovina lo specchio della rovina del proprio Paese, nell’invenzione narrativa un ragazzino chiede a un altro ragazzino se è ebreo, mentre un altro chiede ad un adulto se ha fatto la guerra, si fanno dunque entrare in gioco le domande che l’immaginario della pacificazione ha preteso di stornare dalla realtà, per pervenire il più rapidamente possibile ad un alto standard di convivenza civile, in cui ogni senso di inadeguatezza personale sia spiegato come fisiologico errore di sistema. Oggi un calciatore o un allenatore come Renato Cesarini sarebbe facilmente destinato alla marginalità dell’errore di sistema, perché a Cesarini, come in campo piacque sempre la giocata di genio capace di rovesciare il tavolo, così nella vita piacque spiazzare con l’impertinenza ammaliante della sua parola, che arrivava buona e giusta in primis alle orecchie di chi non aveva il coraggio o la forza di pretenderla da se stesso.

Forse allora la zona Cesarini, per sinestesia, come teatro possibile del gesto risolutivo, si allarga sopra ed oltre il tempo che resta e accoglie in sé l’ultima spiaggia, l’ultimo odore, l’ultimo accordo musicale in cui poter trovare rifugio per salvare se stessi vincendo la sfida dichiarata a se stessi. Come Renato, che da allenatore del suo River passeggiava a bordocampo nei completi di lino e i mocassini di vitello che ordinava dall’Italia, come El Tano, cui bastavano una chitarra e il violino del Mumo per squarciare sulla notte torinese il contagio di un animo porteño.

Luca Pagliari, Zona Cesarini. Il calcio, la vita, Bompiani, Milano 2023.

Tags     calcio, Zona Cesarini
Share