Che impressione può lasciare a uno spettatore anche solo mediamente esigente la visione di Zero Day, la serie tv Netflix presentata come political thriller per la quale si è scomodato Robert De Niro, protagonista e co-produttore, sulla cui carismatica scia, probabilmente, si è assemblato un cast stellare, a partire da Angela Bassett e Matthew Modine, rispettivamente nei ruoli di presidente Usa e speaker della Camera? Forse quella di una storia solo a tratti intrigante, con poca suspense e una sceneggiatura che si potrebbe ipotizzare generata da un’intelligenza artificiale nel cui software si fossero inseriti ingredienti in sovrabbondanza con input narrativi confusi e scientificamente inaccurati o troppo azzardati. E soprattutto privi di motivazioni plausibili, rispetto alla causa scatenante: un attacco cibernetico di un minuto che provoca un black out totale degli Stati Uniti e migliaia di morti. E che dopo sessanta secondi esatti riattiva magicamente tutti i sistemi facendo comparire su ogni display la frase “This will happen again” e che determina la formazione della Commissione Zero Day – dotata di poteri extra-costituzionali superiori anche a quelli del Patriot Act post 11 settembre – affidata alla leadership dell’ex-presidente George Mullen/Robert De Niro, modello di una bipartisanship ormai sopraffatta da un’estrema bipolarizzazione del paese. Se così fosse, il tutto rispecchierebbe un po’ la teoria informatica del GIGO (garbage in, garbage out) secondo cui l’inserimento dei dati determina il risultato finale.
In ogni caso, ciò poco conta rispetto alle lacune di una serie che ambisce al rango di political thriller, un genere per definizione ambientato in momenti particolari, quando fattori inquietanti quali cospirazioni politiche nazionali e internazionali, minacce per la sicurezza della popolazione, sorveglianza invasiva e sequestri incondizionati dei cittadini, uso maligno di innovazioni scientifiche, danno adito a un diffuso clima di ansia, paura, tensione e paranoia. In effetti Zero Day presenta fattori di questo tipo, così come presenta riferimenti più o meno diretti a persone reali. I più espliciti sono la figlia di Mullen, Alexandra (Lizzy Caplan), deputata “progressista” del Congresso “per un distretto di New York”, con un “enorme seguito di follower”, che fin dal nome rimanda ad Alexandria Ocasio Cortez nel caso gli altri indizi non bastassero; la “sociopatica autistica” Monica Kidder (Gaby Hoffmann), proprietaria dell’impero tecno-informatico Panoply, nome scritto sopra la visiera del berretto che indossa sempre, come il suo corrispettivo Elon Musk; il corrotto e corruttore Robert Lyndon (Gregg Clark), speculatore di borsa miliardario, con tendenze pedofile alla Jeffrey Epstein.
Interessante è soprattutto Evan Green (Dan Stevens), che dalla sua rete televisiva si scaglia come un Savonarola contro le ingiustizie e ineguaglianze della società, di cui ritiene Mullen sia uno dei responsabili, ma che vive come un nababbo e froda il fisco. Sostenitore di istanze tipiche della sinistra, anche se esteriormente più simile a commentatori di destra alla Tucker Carlson e Dave Rubin, l’infido Evan Green, il cui cognome simboleggia ad un tempo l’ecologia e i dollari, è, non a caso, l’unico rappresentante dell’informazione indipendente rispetto ai molti volti rassicuranti dell’informazione mainstream, a partire dal pilastro della Cnn, Wolf Blitzer, che interpretano se stessi nei frequenti notiziari della serie. Dan Stevens è anche uno dei migliori interpreti maschili, subito dopo un elegante ed affascinante Matthew Modine – con tratti da Vincent Price – che con quasi impercettibili modifiche espressive sa apparire rassicurante o enigmatico, sicuro di sé o preoccupato, sincero o mefistofelico.
Tornando al political thriller, ci pare che le modalità e la profusione con cui i personaggi e gli indizi di Zero Day vanno, vengono, scompaiono definitivamente o ricompaiono, conducano verso una struttura più da intrattenimento come il whodunit, i cui elementi classici – numero chiuso dei personaggi, il loro sviluppo non approfondito, il susseguirsi di tracce e depistaggi, la presenza di investigatori geniali – non generano ansia e paranoia bensì il gusto dell’indagine, del mettere insieme e scartare gli elementi che portano alla risoluzione del delitto iniziale, che ha sempre giustificazioni realistiche. È vero che tali generi a volte si mescolano con risultati eccezionali – Perché un assassinio? (1974) di Alan Pakula con Warren Beatty ne è un esempio superbo – ma non ci pare sia il caso di Zero Day. Insomma sembra di essere in qualche modo dalle parti di Agatha Christie, persino quella di Assassinio sull’Orient Express, senza che ci siano però le sue peculiarità: perfezione consequenziale, rigore motivazionale, assenza di buchi narrativi e stonature.
Fin dalla prima puntata emergono perplessità e contraddizioni, come l’uso disinvolto dei cellulari nonostante le “vulnerabilità ignote” che hanno violato milioni di apparecchi, cellulari compresi, permangano. Per esempio sebbene la prima conversazione tra Mullen e il suo amico del Mossad Natan, che gli fornisce informazioni su un un complotto tra hackerattivisti americani di sinistra e funzionari russi, avvenga di persona, dando dunque l’impressione della consapevolezza dei rischi di intercettazioni, durante la notte i due usano i telefonini per ulteriori importantissime informazioni. Del resto è proprio questa telefonata che serve a introdurre uno degli ingredienti potenzialmente più affascinanti dell’intera serie: i disturbi mentali di Mullen. Le pagine del suo quaderno piene di ossessive ripetizioni del titolo della canzone dei Sex Pistols Who Killed Bambi? – che Mullen ha scritto credendo di prendere appunti tanto da urlare che qualcuno ha aperto la sua cassaforte e sostituito il taccuino – sono un immediato rimando a Jack Torrance e al proverbio Il mattino ha l’oro in bocca della versione italiana di The Shining di Stanley Kubrick.
L’analogia, subito dopo confermata dalla visione di un maggiordomo che non c’è, o perlomeno scambiato per il maggiordomo andato in pensione cinque anni prima ma con cui Mullen parla normalmente fin da prima dell’attacco, crea un promettente clima di suspense. Interessanti anche gli effetti visivi dei blackout mentali di Mullen, del modo in cui Who Killed Bambi? gli rimbomba in testa, e dei ripetuti tentativi di ricordare quella telefonata notturna di cui non ha capito il contenuto, precluso anche allo spettatore. Allo stesso modo Mullen aveva capito molto poco anche di un’altra conversazione, avvenuta a porte chiuse nell’ufficio del capo della CIA prima dell’incontro con Natan. Quale lotta interiore si genererà e fino a che punto si spingerà, soprattutto in relazione ai rischi che la presunzione di Mullen potrebbe far correre a milioni di persone? Interrogativi senza risposta perché quei problemi mentali, ai quali purtroppo vengono presto date spiegazioni che a tutt’oggi appaiono fantapolitiche, corrono paralleli al resto della storia senza interazioni significative.
Le vaghe nozioni sulla discussa Sindrome di Havana sembrerebbero aver dato vita, in questo caso, a un virus tecnologico-neurologico in grado di penetrare in ambienti chiusi per colpire esclusivamente l’individuo prescelto ignorando gli altri presenti. Più specificamente l’ambiente infettato è la casa di Mullen, ma non si esclude che il virus possa entrare anche nella sede della Commissione Zero Day, tanto che nell’ufficio dell’ex-presidente viene montata una tenda SCIF a schermatura dagli hackeraggi. Una volta data per buona questa teoria, le allucinazioni di Mullen diventano semplici orpelli almeno fino ai pretestuosi dubbi degli ultimi minuti della serie. Pensando a eventuali attinenze con alcuni storici thriller politico-tecnologici, Zero Day non solo non regge il confronto motivazionale ed emozionale con i due Manchurian Candidate di John Frankenheimer (1962) e Jonathan Demme (2004), ma lascia inesplorato un percorso personale che, anche se non spinto fino ai limiti raggiunti dal compianto Gene Hackman in La Conversazione (1973) di F.F. Coppola, avrebbe potuto costituire un inquietante filone narrativo. Inoltre, contrariamente ai suoi strettissimi collaboratori Valerie Whitesell (Connie Britton) e Roger Carlson (Jesse Plemons), veri motori intelligenti dell’inchiesta, Mullen non è neppure particolarmente intuitivo, sebbene l’anchor woman della MSNBC Nicolle Wallace, riferendosi ai tempi in cui Mullen era procuratore generale, lo definisca “eccezionale e leggendario nelle indagini” tanto da essere soprannominato The Legend.
I suoi piccoli contributi non dipendono dalla sua perspicacia, quanto dai contatti che la sua posizione privilegiata gli garantisce e dalla confessione finale di uno dei personaggi più stupidi della serie, la cui imbecillità, a dispetto della presunzione con cui tratta gli altri, lo equipara solo ad altri creduloni par suo, e la dice lunga sulla prospettiva politica della serie, che lasciamo in sospeso esattamente come gli autori hanno preteso di fare mascherando i personaggi dietro la presunta mancanza di attribuzione partitica.
Zero Day. Regia: Lesli Linka Glatter; sceneggiatura: Eric Newman, Noah Oppenheim, Michael Schmidt; fotografia: John Conroy; montaggio: Ben Lester, Hugo Diaz, Jon Otazua; musiche: Jeff Russo; interpreti: Robert De Niro, Lizzy Caplan, Jesse Plemons, Joan Allen, Connie Britton, Bill Camp, Dan Stevens, Angela Bassett, Matthew Modine; produzione: Grand Electric Productions, Panoramic Media; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2025.