All’inizio degli Yoga Sutra di Patanjali, testo millenario della letteratura indiana e trattato di meditazione e psicologia della mente, viene proposta una definizione dello yoga che riassume l’intero sistema, e che si può tradurre in questo modo: “Lo yoga è la cessazione degli stati mutevoli della mente”. Non è il caso di addentrarsi tra le differenze delle numerose possibili traduzioni, concernenti soprattutto cosa intendere come cessazione (eliminazione? diminuzione? trasformazione?), ma anche riguardanti la difficoltà di tradurre con mente un sostantivo sanscrito (citta) ben più complesso. Quello che si può dire però è che al centro di queste poche parole c’è un nodo teorico che ha impegnato e impegna da millenni anche la filosofia occidentale: il lavorio incessante della nostra mente è ciò che ci caratterizza in quanto umani, ciò che consente la produzione di opere e di imprese della cultura e del pensiero, ma questa stessa potenzialità è ciò che ci danna, che ci rende inquieti, che ci porta sempre altrove, un po’ più in là, verso il futuro, oppure indietro nel passato, separandoci dal nostro presente e dalla vita in sé.
Le attività e le immagini mentali descritte come stati mutevoli, come vortici, sono indicate in sanscrito con il sostantivo vŗtti (quasi una onomatopea, si potrebbe dire un po’ scherzosamente) la cui radice vŗt significa girare, ruotare, sottolineandone l’aspetto attivo, frenetico, divagante. Inoltre, il commentatore degli Yoga Sutra Edwin F. Bryant scrive che «se citta è il mare, le vŗtti sono le onde, le forme specifiche che assume» (Bryant 2019, p. 65). E poiché le onde non sono certamente pensabili separate dal mare dal punto di vista della sostanza, la nostra mente è letteralmente fatta, costituita, formata di vortici, è movimento perenne. Pensare di arrestare questi vortici – o, in altre parole, di invertire la nostra tendenza a trascendere il presente corporeo immergendoci in una esperienza di godimento della vita immanente – è dunque un compito che si presenta quasi come impossibile, al di là dell’umano. Non a caso, l’ultimo livello dello yoga, il suo culmine, è il samādhi, unione con il divino. In termini occidentali potremmo tradurre questo stato di beatitudine e di unità come superamento del dualismo tra mente e corpo, spirito e materia.
Il tentativo di superare il dualismo di cui, nella nostra tradizione, Cartesio è il nome (quasi un marchio, chissà quanto fino in fondo meritato) è una operazione che pochi autori occidentali hanno in effetti messo al centro del loro pensiero, ma che trova per esempio una sua apparizione nel concetto deleuziano, e prima ancora spinoziano, di immanenza assoluta. Se Gilles Deleuze, anche insieme a Félix Guattari nel volume Mille piani, individua vari modi per esperire l’immanenza – di cui il più efficace è l’arte con la sua capacità di fare un uso non meramente comunicativo del linguaggio –, lo yoga propone la pratica. La pratica yoga, in cui l’attenzione prima concentrata su un punto si diffonde in tutto il corpo, lentamente, faticosamente, conduce a un fare senza più fare, esperienza sfuggente che tuttavia può esperire, magari solo per un attimo, anche il principiante.
Ma l’interrogativo a cui rispondono la nozione di immanenza, lo stato del samādhi, la pratica e il “sistema” yoga, è in fondo lo stesso: posto che l’umano è colui che continuamente trascende il proprio presente e il proprio corpo attraverso la perenne attività mentale, come far cessare (eliminare? diminuire? trasformare?) questa inquietudine che a volte diviene un vero e proprio tormento, e aderire – solo per un momento, puntualmente – a quella che Deleuze chiamava la vita immanente, e che lo yoga chiama unione, assorbimento del sé? Poiché siamo irrimediabilmente occidentali, un corollario di questa domanda potrebbe chiedersi se è sempre auspicabile tale contatto immediato con le forze vitali, con i sensi e la gioia del corpo, se è desiderabile una esperienza di rinuncia allo schermo della cultura, del simbolico, del linguaggio.
Queste domande impossibili, senza risposta, sono anche quelle al centro dell’ultimo libro di Emmanuel Carrère che, contrariamente a quello che si dice in molte recensioni pubblicate alla sua uscita, preoccupate per lo più di censurare l’egocentrismo e il narcisismo dell’autore o impegnate in una stucchevole disamina di ciò che è vero e ciò che è falso nel racconto, è proprio un libro sullo yoga. E, aggiungerei, è proprio un libro, scritto con competenza e capacità di catturare i lettori, e cioè è letteratura, qualcosa che parla a tutti, che dà da pensare, non qualcosa che serve come oggetto per giudizi morali o indagini biografiche. Insomma, tornando a ciò che ci interessa, dobbiamo dare credito al suo titolo, Yoga. Al centro di ogni vicenda raccontata, e molte vicende accadono a Carrère o vengono da lui immaginate, c’è infatti sempre la preoccupazione della possibilità di acquietare la vorticosa attività mentale, a volte dannazione ma a volte anche piacere, scoperta, appagamento.
La lotta tra queste due possibilità, la contraddizione insita in questa descrizione, è mostrata quasi plasticamente nella prima parte del libro. L’autore, impegnato in un seminario intensivo di meditazione Vipassana in cui si pratica il silenzio e l’isolamento assoluto, viene richiamato a Parigi dove nel frattempo è avvenuta la strage della redazione di Charlie Hebdo, durante la quale è morto un suo amico. Di fronte all’imperturbabilità dei suoi compagni di meditazione rispetto alle esigenze dell’amicizia, della professione, dei rapporti umani, l’autore si dichiara diviso. E poi ancora, nella parte centrale del libro, in cui Carrère racconta la sua esperienza nell’ospedale psichiatrico di Sainte Anne, è in atto la stessa urgenza: qui la necessità di acquietare i tormenti dell’attività mentale mostra il suo volto più doloroso, quello della terapia elettroconvulsiva cui l’autore viene sottoposto.
Non a caso è François Roustang, psicoanalista che ha frequentato i seminari di Lacan, a suggerire a Carrère di attraversare l’orrore provando a non opporsi: «Quello che sta vivendo è orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell’orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo così può verificarsi un cambiamento». Non a caso, perché la dimensione del reale lacaniano, rispetto al quale la realtà che viviamo è l’elaborazione mediata appunto attraverso l’attività mentale, simbolica e immaginaria, è un altro concetto che descrive la vitalità (e l’orrore) del contatto immediato con l’immanenza, e con cui potremmo far risuonare la definizione di yoga.
Infine, la contraddizione tra trascendenza dei pensieri e immanenza del corpo, della vita, tormenta Carrère relativamente all’attività dello scrivere, in una riproposta dell’interrogativo di ogni autore, letterato, filosofo: scrivere o vivere? Osservare o aderire al reale della vita? Sono molti i passi di questo memoir, romanzo, autobiografia, in cui Carrère gira intorno a questa scissione della sua vita da reporter e da pensatore, soprattutto ricordando continuamente ai lettori il medium della scrittura, riportando i pensieri e le vere e proprie giravolte mentali sorte durante la stesura, quando per esempio lo scrittore incita se stesso a non rimandare ad altri suoi libri senza spiegazione, tentando di abbandonare l’illusione, la speranza, che i suoi lettori conoscano tutti i suoi libri. Per questo motivo, è commovente ma anche straziante il finale del libro, in cui Carrère guarda con desiderio ma anche con malinconia e nostalgia alla giovane donna, il suo nuovo amore, che sale leggera in una verticale gioiosa e spensierata, praticando yoga “come tutte le ragazze del mondo”, lasciandosi andare ai movimenti felici del corpo al di là o al di qua di ogni tormentata alternativa.
Riferimenti bibliografici
E.F. Bryant, Gli Yoga sūtra di Patanjali, Edizioni mediterranee, Roma 2019.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
J. Lacan, Il seminario XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma 2006.
E. Carrère, Yoga, Adelphi, Milano 2021.