Le serie tv partecipano a quel processo di “rimediazione” della storia, che ormai da qualche anno anima il discorso pubblico, soprattutto negli Stati Uniti. Con rimediazione della storia intendo qui sostanzialmente quel fenomeno che va sotto il nome di “Cancel Culture”: rimediare la storia, significa porre rimedio attraverso innanzitutto la cancellazione delle tracce del passato, in cui la società o una sua parte non si riconosce più, ma anche attraverso la riconfigurazione mediale del racconto di quel passato o dei suoi effetti nel presente. A questa riconfigurazione partecipano media diversi e tra questi anche la serialità. 

Nell’ambito di questo processo, certo non privo di contraddizioni e storture che rasentano l’iconoclastia, il Western sembra poter occupare un posto di rilievo. Da genere fondativo della cultura americana, in cui, come scrive Maurizio Grande, si mescolano storia e leggenda, avventura ed epopea nazionale, il western diventa dispositivo simbolico attraverso cui ripensare proprio quelle categorie fondative che non soltanto hanno segnato l’immaginario cinematografico hollywodiano (e quindi mondiale), ma anche la storia e il tessuto sociale degli Stati Uniti d’America. Come scrive Costanza Rizzacasa d’Orsogna, nel suo testo sulla cancel culture (2022), sia in termini produttivi, attraverso scelte inclusive e non appropriative nella selezione del cast, sia in termini narrativi, il Western sembra vivere oggi una nuova vita, capace di ripensare quelle forme della rappresentazione attraversate da un atteggiamento discriminatorio e assoggettante basato sul mito dell’uomo bianco, il pioniere che conquista il West legittimato ad eliminare tutto ciò che si frappone tra sé e questo progetto di conquista.  

In tale contesto il caso di Yellowstone di Taylor Sheridan risulta emblematico, perché sfrutta tutte le potenzialità del formato seriale proprio per rovesciare narrativamente, attraverso la lunga temporalità, alcuni paradigmi narrativi del genere, alla luce di una nuova sensibilità storica e sociale; ma nel fare ciò ripropone proprio alcuni temi-immagine chiave del genere cinematografico: la terra, il confine, la violenza.

Partiamo prima dalle questioni di formato. La saga dei Dutton è un vero e proprio universo narrativo, costituito dalla serie madre, Yellowstone, composta da 5 stagioni (2018-in corso), che raccontano le vicende ambientate ai giorni nostri di una famiglia di cowboy che possiede uno dei ranch più grandi del Montana. Il capofamiglia, interpretato da un leggendario Kevin Costner, è colui che sembra dover difendere il ranch, e i valori che esso rappresenta, da un processo di globalizzazione e gentrificazione, che rischia di spazzare via una storia secolare, quella della sua famiglia certo, nella quale però si rispecchia la storia di una nazione. La serie è il racconto di questa lotta, in cui i confini, etici, politici e familiari, saltano di continuo e il capofamiglia da pioniere alla conquista del West si è trasformato nell’ultimo difensore di un mondo che sta per scomparire. Paradossalmente l’uomo bianco si è trasformato in indigeno ed è proprio questa contaminazione, non priva di tensioni – come dimostra l’episodio in cui la moglie nativa americana del più giovane dei Dutton impartisce una lezione di storia all’università – ad essere il motore del dramma familiare che segna la traiettoria della narrazione

L’universo narrativo della storia dei Dutton si compone – almeno per il momento perché sono in cantiere diversi spin-off e sequel – di altre due serie che fungono da prequel, 1883 e 1923.  Non si tratta di una ricostruzione cronologica degli eventi, quanto di un’operazione archeologica, che individua il momento fondativo della famiglia per poi seguirne gli sviluppi. Sheridan non soltanto sfrutta la lunga temporalità – Yellowstone forse rappresenta una delle poche eccezioni di serie lunghe e molto popolari, con ben cinque stagioni, in momento in cui si prediligono serie ridotte – ma anche la capacità del formato seriale di giocare con il tempo, di muoversi lungo un asse potenzialmente sempre incrementabile della storia, in cui ci può essere sempre un prima e un dopo. Naturalmente alle tre serie corrispondono momenti storici diversi, attraverso cui viene declinato questo processo di lotta, appropriazione, rivendicazione della terra, degli spazi e dei confini, ma anche quindi delle identità e delle appartenenze etniche e culturali. 

Se è vero che il pilot rappresenta il luogo in cui la serie costruisce il proprio mondo e le proprie regole, è significativo che nell’episodio iniziale di ciascuna serie il tema della lotta per la conquista (e poi al difesa) della terra, nella guerra tra bianchi e nativi americani, viene declinato in modo diverso. Come eliminazione in 1883, che si apre con una incredibile sequenza di attacco alla diligenza, in cui la vittima bianca è una donna, Elsa Dutton, che si contrappone ad un nativo americano, il quale le ricorda che quella guerra era stata iniziata per volontà sua gente; come integrazione attraverso la “rieducazione” in 1923, in cui a metà del primo episodio un campo lunghissimo e meccanico ci introduce in una boarding school in cui le ragazze native americane vengono punite nel corpo per essere educate nello spirito. E infine come insanabile conflitto tragico, in Yellowstone, quando durante uno scontro tra i nativi della riserva e i cowboy dei Dutton, uno dei tre figli viene ucciso dal fratello della moglie del più giovane dei Dutton, che a sua volta lo giustizia con un colpo di pistola a freddo. In altre parole Sheridan gioca continuamente a invertire ruoli e prospettive, provando a riscrivere la storia attraverso la saga familiare. 

Se in questo consiste il gioco con il formato, ancora più audace è il lavoro che l’universo di Yellowstone riesce a fare con alcuni elementi tipici del genere, restituiti nella messa in forma dell’immagine, che raccoglie e rilancia l’eredità del genere. Innanzitutto il tema della terra: ripresa dall’alto, nella visione aerea del ranch dei Dutton, o dal basso se pensiamo alla prima inquadratura di 1883, in cui la macchina da presa si trova raso terra, la terra rappresenta appartenenza, realizzazione, radicamento e adesione al mondo.  Questa relazione con la terra non è qualcosa di culturalmente mediato, ma di istintivo, viscerale, originario, come dimostra l’indugiare della macchina da presa nell’ispezionare i corpi di animali che popolano insieme all’essere umano questa terra. E la lotta per i confini, che vengono continuamente attraversati, spostati, messi in discussione, è il segno del tentativo di riportare questo attaccamento alla terra nell’ordine del razionale e dell’economico. Ma ciò non è possibile e la violenza, il sangue, segna ogni passaggio e ogni conquista (tutte e tre le serie si aprono in questo modo, con una morte e con un corpo segnato da una ferita).  

Se allora come scrive Mittell, «dobbiamo guardare oltre il testo come luogo del genere e individuare invece i generi all’interno delle complesse interrelazioni tra testi, industrie, pubblici e contesti storici» (2001, p. 7), l’universo seriale creato da Sheridan mostra chiaramente come nel rinnovare e attualizzare un genere classico per eccellenza, come il Western, esso possa svolgere il ruolo di dispositivo simbolico attraverso cui provare fare i conti con la storia, alla luce di una rinnovata sensibilità politica e culturale, dando forma ancora una volta alle complessità e alle contraddizioni di una nazione intera. 

Riferimenti bibliografici 
Taylor Sheridan. L’ultima frontiera del Western, in “Sentieri Selvaggi”, n. 15, 2023. 
M. Grande, Il Western: un’epopea moderna, in R. De Gaetano, a cura di, La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, Bulzoni, Roma 1998. 
J. Mittell, A Cultural Approach to Television Genre Theory, in “Cinema Journal 40”, n. 3, 2001. 
C. Rizzacasa d’Orsogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Laterza, Roma 2022. 
R. Wanzo, Taylor Sheridan Is Sorry but His Characters Are Not: The Messiness of Categorizing Conservative Television, in “Film Quarterly”, 2022, 76, 2.

Share