Far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita
senza utilizzare avvenimenti particolari.
Questo è ciò che ho provato
in tutti i modi a mettere in scena.
Yasujirō Ozu
Il cinema di Ozu è stato per lungo tempo invisibile in Occidente, tanto che si può parlare di una sua effettiva, postuma scoperta nel corso degli anni settanta. Essere stato considerato a lungo il “regista più giapponese tra i registi giapponesi” – a partire dal celebre divulgatore di cultura nipponica Donald Richie – ha fatto sì che le sue opere non incontrassero il plauso della distribuzione internazionale, comportando quindi l’ingresso tardivo nell’olimpo dei cineasti. Ma in maniera altrettanto repentina Ozu è diventato un autore imprescindibile per concepire la modernità cinematografica. In quegli anni si tendeva tuttavia a confinare Ozu entro un universo tradizionale, fatto di inquadrature geometriche, atmosfere intime, abitazioni tipiche e inchini deferenti: una semplicità “francescana” che affiora sin dai titoli di testa, stagliati su uno sfondo ocra la cui trama ricorda quella dei sacchi di iuta.
Parallelamente emergeva la riflessione “eretica” del grande studioso e critico cinematografico Shigehiko Hasumi, confluita nell’imprescindibile Ozu Yasujirō, Director (1983). Più che ricusare gli studi precedenti (Satō, Richie e Bordwell su tutti), Hasumi si sofferma su ciò che era stato da questi in parte tralasciato, mirando alla superficie dell’immagine, ossia ai gesti alla base del suo cinema. Tale accento permette di allontanarsi da considerazioni puramente estetiche che portano con sé una precisa morale antropocentrica del mondo, per giungere, invece, a una “soggettualità diffusa”, all’affiorare di un evento sullo schermo, annidato nei mo(vi)menti quotidiani.
Basti pensare alla sequenza finale di Tarda primavera (1949) in cui l’analisi del movimento rileva l’azione reiterata che investe soggetti umani e non: dal rigirare le dita, in cerca di un sostegno, attorno a una superficie (un filo, dei collant, una mela), al restare sospesi o lasciar cadere, assecondando la gravità (il cappotto appeso, il mozzicone di sigaretta, la buccia della mela). Ciò che emerge è che quegli stessi gesti hanno già solcato il quadro – in altre sequenze, persino in altri film – mantenendo la medesima articolazione degli spazi e/o angolazione. Ozu sceglie di mostrare ciò che non può essere detto: così, per restare a Tarda primavera, l’ineluttabile assenza della figlia è rimarcata dalla presenza della domestica che, per quanto premurosa, non potrà mai essere per l’uomo (Chishū Ryū) tanto amorevole e raggiante come quella della sua Noriko (Setsuko Hara).
Il cinema di Ozu è un rituale modernista, una messinscena solenne e scanzonata che si articola attraverso una profondità di campo teatrale, scandita dalla danza di porte e paraventi che scompongono e ricompongono uno spazio – domestico e nazionale – apparentemente conchiuso e autosufficiente. La sua filmografia si snocciola assecondando una struttura circolare complessa. Si assiste a un transito – di attori, ruoli, personaggi, nomi, trame, forme – che non conduce però all’indifferenziato. Ogniqualvolta si compie un giro intero, che culmina con la saturazione di una forma e/o modalità espressiva, ha luogo un transito: dal muto al sonoro (nel 1936 con Figlio unico), dal bianco e nero al colore (nel 1958 con Fiori d’equinozio), dall’anteguerra al Giappone post-bellico. Entro il perimetro di questo cerchio – mandala – si svolge un rituale cinematografico (sempre uguale perché sempre diverso, e viceversa) attraverso uno sviluppo che erode il paradosso secondo cui vuoti, silenzi e tempi morti non possono essere elementi attivi.
Per converso, l’azione è considerata alla stregua di un cerimoniale, elemento prevedibile che sovente imbriglia i personaggi subordinandoli alla composizione generale dell’inquadratura o giocando con la loro corporeità, carpita nelle sue qualità strettamente figurali. Come in un dramma kabuki ogni ruolo tende a seguire forme e schemi la cui fissità è esaltata da una modulazione coreografica: dai ventagli che si muovono all’unisono o in controtempo ai personaggi disposti a scalare, fino alle celebri inquadrature di raccordo – definite da Burch pillow-shots – che sospenderebbero il flusso diegetico sia relegando la figura umana a un ruolo marginale sia attraverso la sua natura di composizione statica. Esse si comportano come “ralenti negati”, poiché non vi è necessità di un enfatico stiramento artificiale.
Anche per questa ragione, nella seconda parte della sua carriera, Ozu frequenterà sempre meno il melodramma in favore di una contemplazione nostalgica mai regressiva, ma anzi ben consapevole della realtà contemporanea. Non c’è ipocrisia o mistificazione nei panni lindi e senza pieghe stesi dalle massaie – che si faranno sempre più vistosamente lucenti, sino a infiammarsi di rosso in un film come Buon giorno (1959) – né una scarsa propensione all’empatia – che trasuderebbe invece dall’ordine più “sgraziato” del regista rivale Mikio Naruse – nei confronti del ceto impiegatizio e dei tanti lavoratori che si trasferiscono nella capitale in cerca di fortuna per poi restare confinati nei sobborghi economicamente più accessibili.
Si delinea così un microcosmo popolato da insegnanti squattrinati, genitori che combinano matrimoni, monelli che studiano diligentemente inglese, vedove di guerra risospinte verso il passato e giovani alla ricerca di opportunità, decisi a rompere con la tradizione. Le cornici tradizionali finiscono talvolta con l’assecondare quella mania giapponista che infiammò gli animi impressionisti, mentre nelle abitazioni proliferano prodotti Made in USA e il cielo di Tokyo si tinge di insegne luminose delle corporation americane. Senza ricorrere a un tono predicatorio, Ozu dimostra una certa sintonia con le nuove generazioni, per le quali la tradizione non sempre riesce ad attutire i colpi di quei tempi turbolenti, segnati dal trauma bellico e dall’ingerenza americana.
Lo stile ozuiano dà prova di non essere un passivo amplificatore della cultura tradizionale volto ad assecondare le esigenze produttive dell’industria cinematografica, ma una forma malleabile del cambiamento percorsa da variazioni microtonali che risultò a lungo un’ingessata macchina reazionaria persino agli occhi di quei “giovani turchi” che presto sarebbero passati dalla critica militante alla macchina da presa per dare vita alla Nouvelle Vague giapponese (Nūberū bāgu). Ozu accolse invece con benevolenza i «nuovi registi originali» (Ozu 2016, p. 32), alfieri della Nūberū bāgu cui si rivolse per rimarcare l’inesistenza di una «grammatica del cinema» (ivi, p. 37).
Così, da Tarda primavera, assieme al sodale co-sceneggiatore e compagno di bevute Kōgo Noda, Ozu si dedica a una scrittura via via più rarefatta eppure incarnata, sottesa a narrare «una storia […] con un tono del racconto tipo “Ah sì?”, “Eh già”, “Sì, è proprio così”» (ivi, p. 62). In modo analogo la «forza dell’immagine» si fa «contemporaneamente più astratta e più diretta e […], per quanto flagrante, spesso passa inosservata perché […] incompatibile con il lirismo» (Hasumi, 2015, p. 43). Per tali ragioni il regista giapponese riesce, sia nei suoi scritti sia nella prassi cinematografica, a cogliere anzitempo l’emergere di una tendenza alla commistione tra finzione e documentario, pratica che diventerà inevitabile qualora la settima arte volesse davvero raccontare e rappresentare la Vita. Siamo nel 1941 e il cinema del reale bussa già alla porta.
Riferimenti bibliografici
N. Burch, To the Distant Observer. Form and Meaning in the Japanese Cinema, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1979.
S. Hasumi, Yasujirō Ozu, in G. Placereani, a cura di, Ozu Yasujirō. Autunno e primavera, Tucker Film, Pordenone 2015.
H. Nakamura, Ozu, or On the Gesture, in Review of Japanese Culture and Society, vol. 22, 12/2010, pp. 144-160.
Y. Ozu, Scritti sul cinema, tr. it. F. Picollo, H. Yagi, Donzelli, Roma 2016.
D. Richie, Ozu. His Life and Films, University of California Press, Berkeley 1974.
K. Yoshida, L’anti-cinema di Ozu, Cesati, Firenze 2008.