Quella che Sarah Polley costruisce è una configurazione filmica in grado di riverberare un pensiero teorico con la potenza, semplice e disarmante, di un racconto tessuto e cadenzato come un antico canto corale. È una costruzione metonimica che riesce a contenere il particolare e l’universale, l’intimo e il pubblico, la micro e la macro-storia, l’epico e l’ordinario. Tratto dall’omonimo romanzo di Miriam Toews (2018), Women Talking ritrae un momento cruciale nella storia di una comunità mennonita fortemente religiosa e isolata dal resto del mondo, in cui un gruppo di donne è chiamato a fare una scelta, un atto che sembra assumere la densità porosa extratestuale di riflessioni che attraversano il pensiero filosofico e politico femminista.
La decisione straziante che attiva e alimenta l’ingranaggio narrativo dell’intero film nasce da una crepa, uno squarcio del “velo di Maya”, che dolorosamente porta il gruppo di donne a fare i conti con ciò che realmente ha subito, ovvero abusi sessuali, violenze fisiche e psicologiche da parte degli uomini della colonia. Attraverso una reiterazione diabolica e bestiale che prevedeva la narcotizzazione delle vittime e lo stupro durante la notte, la violenza maschile veniva occultata, implementando una demistificazione della realtà per cui ogni traccia tangibile della violenza, compresi i corpi insanguinati e lividi delle donne o le gravidanze inattese, veniva attribuita a Satana, ai fantasmi o, ancora peggio, negata e imputata alla folle immaginazione femminile. Proprio l’allontanamento degli uomini, denunciati e trattenuti momentaneamente dalle autorità di una città vicina, permette alle donne di riunirsi e decidere se restare nella comunità e combattere contro gli aggressori o andare via.
Così, in un conclave ambientato in un fienile, un coro di voci femminili riparte prima di tutto dal gesto ancestrale e fondativo di provare a dare un nome alle cose. Ma le “cose” sono difficili da nominare quando coincidono con l’indicibilità del trauma. Nei primi minuti del film la voce fuori campo, nonostante la chiarezza di chi si appella al vissuto, lascia trapelare il primo nodo teorico fondamentale del film: “Non parlavamo dei nostri corpi. Quindi quando succedevano cose del genere, non c’erano le parole. E senza le parole c’era un profondo silenzio. Ed era in quel profondo silenzio che si celava il vero orrore”.
Ciò che sottende tutta la narrazione è proprio la volontà di appropriarsi del linguaggio, ma anche di re-inventarlo, di fondare un nuovo ingresso nel simbolico, o meglio in un contro-simbolico come sostiene Mulvey, in cui l’immaginario, che secondo la formulazione lacaniana si origina nella sfera pre-edipica del materno e del pre-linguistico, possa penetrare la cultura patriarcale (Mulvey 2019, p. 92), sanando così un’esclusione, quella marginalità del femminile che fin dagli anni Settanta ha interessato le teoriche femministe proprio nei termini di un problema di linguaggio. Le protagoniste di Women Talking, nell’atto di appropriazione del linguaggio che necessita, come direbbe Cavarero, di un disfacimento del suo carattere sessuato maschile, sembrano abitare proprio lo spazio-tempo di una soglia, in cui la linearità del tempo si sfalda e un cinema femminista è in grado di trovare «ways of representing silences and new ways of expressing ideas and emotions at a knight’s move away from established and traditional ways of making meaning» (Mulvey 2019, p. 93).
Anche la totale esclusione dall’immagine filmica del soggetto maschile, ad eccezione del personaggio di August, rende il momento decisionale e di confronto tra donne un’allegoria di quei gruppi di autocoscienza collettiva che hanno animato il pensiero e la pratica della differenza sessuale nella seconda ondata del femminismo. Che queste donne stiano in fin dei conti discutendo non solo della scelta di rimanere o andare via, ma di rifondarsi e riposizionarsi come soggetti autonomi e pensanti, è suggerito anche da brevi frasi, limpide e profonde, pronunciate spesso dal personaggio interpretato da Rooney Mara, Ona, che in alcuni casi rende esplicito questo pensiero, come nel momento in cui asserisce: “quando ci saremo liberate, dovremo chiedere a noi stesse chi siamo”. Il fienile, così, diventa il ventre amniotico che incuba una ri-nascita, un punto di transito in cui il passato traumatico si fonde col presente dialogico per proiettarsi in un futuro da costruire seguendo nuove mappe, oltre le colonne di Ercole imposte dalla legge del Padre.
Proprio la complessità della struttura temporale del film ci rimanda ad un altro nodo concettuale che ha che fare con l’iscrizione di un tempo soggettivo, con l’arresto di una linearità che tendenzialmente è sempre stata associata all’ordine patriarcale. Sicuramente la sospensione dell’azione, sostituita dal momento riflessivo e decisionale dominato dal linguaggio, crea una bolla atemporale – un’immobilità accentuata anche dall’asincronia dei costumi e dalla desaturazione della fotografia – che a sua volta viene continuamente fatta esplodere dalle iniezioni, acute e dolorose, di un ricordo traumatico, dei flashback che hanno una loro specifica configurazione filmica di un’efficacia sottile e potentissima. Il momento della violenza subita viene visualizzato attraverso delle inquadrature dall’alto che non mostrano mai l’atto dello stupro, ma sempre e solo i segni della violenza sui corpi delle donne.
La deliberata scelta di occultare il gesto traumatizzante, se da una parte agisce in maniera autoriflessiva come negazione della spettacolarizzazione mediale del dolore, dall’altro innesca una dimensione-altra associata al trauma stesso. L’evento non è rappresentabile, soprattutto perché lo sguardo, anche in questi frammenti mnestici, rimane quello delle donne che faticano ad elaborare cognitivamente l’accaduto, in una dissociazione che, seguendo i Trauma Studies, produce una forma particolare di memoria in cui l’esperienza è colma di affetto, ma priva di significato (Kaplan 2005, p. 34). Questa dissociazione è palpabile nella veduta dall’alto, spesso un plongée che disancora lo sguardo e il corpo della donna in una “depropriazione”, una spersonalizzazione che costituisce uno sfaldamento irrimediabile del soggetto traumatizzato.
Eppure il film, a fronte di una temporalità fluida e ambigua, riesce comunque a fare appello anche ad una dimensione profondamente storica, nell’attualità di un racconto che non ha realmente i confini di una colonia sperduta e lontana, ma parla di una violenza sistemica e diffusa nella società contemporanea. In questo modo il film salda microcosmo e macrocosmo, in una sorta di movimento di sistole-diastole in cui alla chiusura immaginativa segue sempre un’apertura al mondo extradiegetico.
L’atto immaginativo, così, trasla dal terreno semantico negativo che ha ritratto le donne come isteriche e capaci di “immaginare” – nell’accezione di “inventare” – violenze, soprusi e discriminazioni, per divenire carburante per la rifondazione di nuove relazioni collettive che possano agire come azioni politiche per il futuro. Se spesso sono stati richiamati i dodici “angry men” di Lumet, in realtà queste “angry women” ricordano molto di più quella solidarietà femminile di certo cinema contemporaneo delle donne del mediterraneo, in cui, i legami affettivi si trasformano in una potente agency sociale (Pravadelli 2018, p. 40). Proprio quell’agency che alla fine del film risolve l’interrogativo del racconto, in un commovente movimento di liberazione e speranza.
Riferimenti bibliografici
A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987.
A. Kaplan, Trauma Culture. The Politics of Terror and Loss in Media and Literature, Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey-London 2005.
L. Mulvey, Afterimages. On Cinema, Women, and Changing Times, Reaktion Books, London 2019.
V. Pravadelli, a cura di, Il cinema delle donne contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
M. Toews, Donne che parlano, Marcos y Marcos, Milano 2018.
Women Talking – Il diritto di scegliere. Regia: Sarah Polley; sceneggiatura: Sarah Polley; fotografia: Luc Montpellier; montaggio: Christopher Donaldson, Roslyn Kalloo; musiche: Hildur Guðnadóttir; interpreti: Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley, Judith Ivey, Ben Whishaw, Frances McDormand, Sheila McCarthy; produzione: Orion Pictures, Plan B Entertainment, Hear/Say Productions; origine: Stati Uniti d’America; durata: 104’; anno: 2022.