Wild Wild Country

One of the first images in the film is of a vast, wonderful, outer-space landscape.
The commentary says: Wide mountain ranges, the valleys enshrouded in mist”.
What I actually filmed were little heaps of dust and soil created by the tires of trucks;
the mountain ranges weren
t more than one foot high.
It
s an invented landscape, yet it builds something beyond these little accountantstruths.
It immerses you in the cosmic
.

Werner Herzog 

La beffa più grande che il cinema abbia mai messo in atto è stata far credere al mondo che le immagini proiettate sullo schermo esistessero realmente. Sommando la verosimiglianza delle immagini in movimento alla tradizionale sospensione dell’incredulità sollecitata da qualsiasi esperienza narrativa, il cinema è spesso riuscito nell’impresa di sostituirsi, almeno nell’immaginario, alla realtà. Già alla fine del primo episodio di Wild Wild Country, docu-serie in sei puntate prodotta e distribuita da Netflix dal marzo 2018, si ha invece la sensazione opposta: aver assistito, cioè, a qualcosa di profondamente irreale, incredibile, inverosimile. La ragione non risiede, tuttavia, nella sua natura seriale o documentaria (si vedano anche soltanto due minuti a caso di qualsiasi film di Werner Herzog), quanto nel problematico e incerto regime di verità che la serie instaura con lo spettatore dal primo all’ultimo episodio.

Quanto raccontato in Wild Wild Country è successo appena 35 anni fa, ma nessuno ne sapeva niente. Perché? Il soggetto, in effetti, è piuttosto inverosimile: nel 1981 il guru indiano Bhagwan Shree Rajneesh (noto oggi come Osho) decide di spostare la sua comunità religiosa di sannyasin da Pune, in India, ad Antelope, in Oregon. Grazie all’iniziativa della sua assistente Anand Sheela, in pratica, il santone fonda una città di 260 chilometri quadrati, Rajneeshpuram, che progressivamente arriva a contare decine di migliaia di fedeli. All’interno dei sei episodi vengono raccontati i rapporti complicati tra i nuovi inquilini e i vecchi abitanti del luogo, tra sannyasin e cowboy: uno scontro tra culti, ideologie e civiltà violento e rabbioso, da cui emergono sospetti, intolleranze e pregiudizi ancestrali.

Wild Wild Country s’inserisce nel solco di una recente tendenza produttiva che ha visto, negli ultimi tre anni, la realizzazione da parte di Netflix di decine di docu-serie di successo: da Making a Murder (di Laura Ricciardi e Moira Demos, 10 episodi), racconto true-crime su un caso giudiziario statunitense, fino a Wormwood (di Errol Morris, 6 episodi), serie che più di altre ha spinto in là i confini stilistici e di genere del racconto storico tra drama e documentario, l’idea del più importante provider over-the-top del mondo sembra quella di utilizzare proprio l’ibridità di questo genere al fine di rivisitare, attraverso alcuni casi di analisi, la storia recente degli Stati Uniti, muovendosi in un solco estetico e tematico tra una necessaria universalità del racconto e una morbosa vivisezione dell’identità americana.

Anche l’obiettivo dei due autori, Chapman e Maclain Way, è quello di assolutizzare le vicende narrate, di renderle il più possibile universali e funzionali all’attuale. Per questo, decidono di intervistare — e di includere nella narrazione — sia gli ex abitanti della comunità di Rajneeshpuram, sia gli “usurpati” cittadini di Antelope, non facendo mai emergere la specificità di un punto di vista. Rincorrendo la pretesa del rimanere costantemente oggettivi si finisce per spersonalizzare del tutto il racconto del reale: non solo non includendo se stessi all’interno della narrazione, ma anche avendo timore di identificare il loro sguardo con quello di uno qualsiasi dei testimoni che hanno scelto, gli autori decidono di rimanere fuori dalla materia che trattano. Di fronte a una mancata trasformazione dei protagonisti in veri e propri personaggi, di conseguenza, lo spettatore riesce difficilmente a credere in ciò che vede, dunque a prendere posizione.

Se l’andamento della storia sembra inizialmente armonizzato sul running plot, ben presto la struttura orizzontale crolla su se stessa. Ciò che disturba è l’incapacità di proporre un giudizio, di accompagnare lo spettatore per mano all’interno di una storia tramite la mediazione di una visione. Lo stesso utilizzo del preziosissimo materiale di archivio, prodotto amatorialmente all’interno della comunità, non viene quasi mai messo in risalto da un punto di vista: annegato tra le interviste e le immagini televisive di quei giorni, sembra alla lunga risultare normalizzato, perdere la propria “aura”. Sia la struttura narrativa che quella estetica, dunque, problematizzano anche il più basso livello di credenza spettatoriale. Alla fine le immagini non bastano più: per credere in quel che abbiamo visto abbiamo bisogno del reale, da cercare al di fuori dello schermo e della narrazione.

Pur realmente accaduta, la storia raccontata non sembra mai fino in fondo credibile. Durante la visione, non riusciamo a prendere una posizione chiara, netta, definita: stare dalla parte di un’America bianca, gretta e reazionaria, che non riesce ad accogliere la diversità, oppure da quella di una comunità religiosa, alla ricerca di un posto al sole, basata su principi spirituali e materiali poco trasparenti? La mancanza di un punto di vista forte non aiuta: gli autori non riescono a dare una continuità strutturale all’andamento così thrilling ed efficace delle prime ore, promettendo di sciogliere una serie di nodi negli episodi successivi che, alla fine, rimarranno insoluti.

I rapporti politici che s’instaurano tra le differenti correnti di fedeli all’interno della comunità non emergono mai dalla superficie del visibile. Il caso del tentato omicidio di Osho, nodo cruciale narratologicamente parlando, viene anch’esso trattato in modo sommario. Altri episodi, come l’attacco batteriologico bioterroristico ai danni dei cittadini di The Dalles o il sistema di intercettazioni telefoniche e ambientali messo su per controllare i membri interni della comunità spirituale, non vengono mai illuminati a partire dai processi e dalle indagini avvenute e risolte negli anni successivi. Una verità storica e giudiziaria, a ben vedere, sembra esserci; tuttavia, per conferire al racconto un alone di ulteriore inquietudine e mistero, gli autori compiono un’operazione sistematica di complicazione delle vicende trattate, finendo per rendere forzatamente grigia — e dunque sfuggevole, o poco intellegibile — la materia trattata.

Data la cospicua presenza di sannyasin e cowboy, lungamente intervistati nel corso delle sei ore, avremmo voglia di chiedere loro molto di più, di approfondire le loro storie, così come ragioni e motivazioni, che rimangono invece sempre in superficie. Questo gioco di voci ci rimanda, inevitabilmente, alla modalità documentaria già sperimentata da Claude Lanzmann. Pur rifiutando qualsiasi modalità illustrativa o utilizzo di repertorio, l’elaborazione teorica messa in atto, ad esempio, in Shoah (1985), ci costringeva di contro a ridiscutere il nostro posizionamento di fronte a vittime, carnefici e spettatori, rappresentati tutti dalla stessa parte della Storia. Da una prospettiva apparentemente opposta, il cinema di Herzog ci ha invece insegnato a fermarci sulla soglia del rappresentabile, a osservare la realtà dal buco della serratura senza doverla necessariamente valicare, a credere in ciò che vediamo attraverso lo sguardo mediato dalla forza un punto di vista. Alla fine di Wild Wild Country, invece, abbiamo bisogno di cercare su Google altre informazioni per sentirci appagati, di approfondire una storia a cui il continuo processo di sottrazione compiuto dagli autori non ci permette di credere fino in fondo.

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