Quando Josiah “Jed” Bartlet decide di dare inizio all’eroica impresa della sua rielezione chiama a raccolta nuovi consulenti e inizia, così, lo scontro tra il vecchio team e il nuovo. Siamo all’inizio della terza stagione, cioè quella stagione che andò in onda negli Stati Uniti per la prima volta un mese dopo l’attentato alle Torri Gemelle. E assistiamo ad una tipica scena alla Sorkin: per tutto l’episodio si è lavorato alla stesura del discorso del presidente e proprio negli ultimi minuti, poco prima che Bartlet debba prendere la parola sul palco per annunciare la sua candidatura, gli speech writers cominciano a discutere sull’uso del termine “torpore”. Per i nuovi è un termine difficile, di cui molti non sanno il significato; per i vecchi è chiaro cosa significhi e non c’è motivo di non usarlo. In quel momento entra il presidente e mette la parola fine alla discussione: “Se la gente non sa cosa significa la parola torpore potrà cercarla sul vocabolario. Il nostro compito non è quello di rivolgerci al minimo comune denominatore, il nostro compito è quello di elevarlo”. In questa scena c’è l’essenza di quel grande racconto seriale di fine Novecento che è stato The West Wing. C’è l’ironia sottile molto liberal, che tutti i personaggi si rimpallano – e quindi l’incredibile capacità di scrittura e ritmo del montaggio di Sorkin – e c’è lo slancio, la spinta dell’ideale che prevale su tutto. C’è qualcosa in cui credere.

Cosa significa rivedere oggi The West Wing? Possiamo innanzitutto definire questo oggi, a partire da due prospettive: quella della storia (recente) della serialità e quella del rapporto tra narrazione e politica, sullo sfondo di una generale e decisiva riorganizzazione del panorama mediale e dell’audiovisivo. Rispetto alla prima prospettiva, sappiamo bene che oggi ci troviamo in un’epoca molto diversa da quella in cui Sorkin aveva creato The West Wing: non soltanto abbiamo assistito alla nascita e affermazione della nota serialità complessa, ma oggi ci troviamo di fronte all’emergere di un nuovo paradigma seriale fortemente connotato dalle rinnovate modalità di distribuzione e fruizione dei contenuti. Forse siamo già nella post-complessità.

D’altro canto, anche rispetto al rapporto tra politica e narrazione, possiamo testimoniare un doppio superamento. Sorkin è probabilmente tra i padri fondatori di quella seducente narrazione liberal di inizio millennio, una sorta di ideologia leggera del sogno americano che trova proprio nell’efficacia dello storytelling la sua forza e che culmina con l’elezione di Barack Obama. Oggi, invece, viviamo una nuova stagione di “narrazione” politica, fatta a colpi di tweet e fake news, rispetto a cui quello storytelling sembra non riuscire più ad incidere. The West Wing poteva ancora mettere in scena in modo credibile la promessa utopica e politicamente corretta di giustizia, uguaglianza e progresso, mentre oggi l’ascesa del più radicale dei populismi che forse l’America abbia mai visto non lascio spazio a quel tipo di patto civile su cui si basa la serie – e pensiamo a come vengono rappresentati i repubblicani, ad esempio con il personaggio di Ainsley Hayes –  e che ha prodotto una grande partecipazione di pubblico. I movimenti e le manifestazioni più radicali a cui abbiamo assistito in questi mesi (dai Black Lives Matter fino all’abbattimento delle statue) sono dimostrazione che quel patto è ormai a rischio. L’oggi di cui stiamo parlando, dunque, è la vigilia di una nuova elezione presidenziale americana, che, nel mezzo di una pandemia globale, assume un’importanza epocale.

Ed è proprio questo sentimento di urgenza che emerge dalla reunion del cast, prodotta da HBO, per sostenere l’organizzazione nonprofit “We All Vote”, che ha come scopo quello di incentivare la partecipazione elettorale soprattutto tra i giovani. Lo Speciale West Wing è la letterale messa in scena di un episodio della terza stagione (Hartsfield’s Landing), in cui in uno scontro con la Cina emerge il tema dell’importanza del diritto di voto. Si tratta della costruzione di un vero e proprio evento teatrale in sui si alternano le immagini dalla sala vuota, la messa in scena del testo, le immagini del dietro le quinte e gli appelli al voto di politici (Bill Clinton e Michelle Obama) e attori – tra cui anche Dulé Hill (alias Charlie Young ) e Elizabeth Moss, oggi volto di The Handmaid’s Tale, serie antitrumpiana per eccellenza, ma allora la figlia più giovane del presidente Bartlet. Si materializza così davanti agli occhi del nostalgico spettatore l’abisso che ci separa da quel mondo in cui The West Wing era possibile, in cui quel tipo di discorso politico era possibile (pensiamo al Bartlet citato in apertura). Insomma sembra che se l’oggi non ci presenta la speranza utopica di una società più giusta, non resta altro che provare a scavare in cosa rimane dello storytelling del passato (da Obama a Bartelet).

E allora, di nuovo, cosa significa rivedere The West Wing oggi? La scelta della messa in scena, cioè di teatralizzare il testo televisivo, è decisiva. I dialoghi di Sorkin, infatti, spogliati dall’ormai iconico “walk-and-talk”, dalla loro dimensione corale, del ritmo incalzante, non fanno altro che ribadire che sì, le serie di Sorkin sono serie molto scritte, ma scritte appositamente per quel dispositivo audiovisivo specifico, ovvero per una tradizionale serialità da palinsesto, in cui il mondo resta fisso e ciò che permette il processo di serializzazione è l’azione, la continua riaffermazione del carattere dei personaggi.  Ogni settimana lo spettatore ha la certezza di ritrovare la granitica e rassicurante integrità morale del presidente Bartlet e del suo staff. Il mondo è saldo, e salvo. La serialità di Sorkin rientra, allora, certamente nell’idea di una tv di qualità, ma forse non ancora in quella di una serialità complessa, in cui l’evoluzione dei personaggi, la loro ambivalenza e doppiezza è motore della narrazione, in cui i mondi sono articolati, costitutivamente aperti e mai completamente esplorati.

Rivedere sulla scena quell’episodio fa emergere allora chiaramente che al mondo politico più solido e granitico che la serialità forse ci abbia mai presentato, ovvero quello dell’Ala Ovest della Casa Bianca, si contrappone oggi il racconto di un mondo complesso, attraversato da istanze etiche e sentimenti discordanti, da rivendicazioni ben lontane dall’essere pacificate nel racconto utopico. Anzi sembra chiaro che oggi quello stesso mondo utopico che la serie ha riaffermato per 7 stagioni non riesce più a svolgere quella funzione di modello rispetto alle sfide e alla complessità della realtà che ora viviamo. Un mondo fatto da “tutti gli uomini del presidente” e ben poche donne, in cui i personaggi femminili vengono rappresentati attraverso esilaranti gag che hanno al centro le segretarie e in cui l’unico personaggio principale afroamericano è l’aiutante personale del Presidente (e questo tema è oggetto esplicito della narrazione, quando Josh si chiede se sia un problema che il presidente abbia un assistente di colore).

Sorkin tutto questo lo sa molto bene e allora l’unico modo di ripresentare The West Wing è quello di monumentalizzarlo in una versione teatrale. All’estetica del racconto veloce, vivace, da realismo del dietro le quinte, fondata sulla steadicam, si sostituisce la teatralizzaizone, ovvero l’esplicita esposizione del carattere finzionale del racconto e della politica. La politica é un palcoscenico, di cui vediamo le quinte, le scenografie, e  su cui ognuno può decidere che ruolo giocare, come in quella partita a scacchi con cui Bartlet sfida il suo staff. E allora quando le immagini in bianco e nero degli attori con le mascherine che scherzano tra di loro passano sullo schermo, sulle note della sigla indimenticabile, allo spettatore (almeno ultratrentenne) non può che balenare la folle idea che magari quel vecchio mondo è ancora possibile. Ma basterà la nostalgia del passato a ridisegnare il nostro futuro?

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