Ha ragione Alberto Anile nel suo Orson Welles in Italia (La Nave di Teseo) a considerare «un record di permanenza» i sei anni italiani del titanico, errabondo inquieto, cineasta e protagonista assoluto di Citizen Kane o Quarto potere. Donde la scelta, anche espressamente voluminosa, di quest’opera appunto monumentale, di affrontare la microstoria biografica del genio Welles come una storia compressa e complessa, che meritava appunto di assumere contorni epocali ed epici. Non importa che questa di Anile sia una riedizione, rivista e accresciuta, di un testo già fondamentale edito dal Castoro nel 2006 e dall’Indiana University Press nel 2013, perché al di là dell’aritmetica collazione di cui lo stesso autore fornisce i dati preliminari nell’introduzione, la verità è che siamo ora alla versione definitiva, al director’s cut prepotente di una vicenda che si segue come un romanzo. Deposte le remore del saggio tradizionale o accademico, Anile prende posizione sin dal primo capitolo per l’affabulazione, seguendo la bella intuizione di Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di «destra» in un successo di «sinistra» (con Maria Gabriella Giannice, Le Mani, 2000; Feltrinelli, 2014), con l’atterraggio il 9 novembre del 1947 sul suolo romano dell’eroe della storia. E ha parallelamente ragione Pupi Avati nella commossa e commovente prefazione a condividere la sensazione che Anile abbia i requisiti del testimone diretto, presente sul posto, perfetto pendolare tra passato e presente mediante la macchina del tempo e l’agilità di scrittura.
Orson Welles in Italia mantiene intatta per le centinaia e centinaia di pagine di percorrenza, con le cinture strette fornite al passeggero/lettore, la sensazione che il discorso storico-critico o scientifico non debba scontrarsi con il dato creativo, dal momento che una cosa avvantaggia l’altra nel conguaglio continuo. Ciò che sembra frutto di invenzione è oltremodo vero e ampiamente documentato, ma assume i contorni di un’invenzione più autentica di ogni possibile o sostenibile fonte diretta. Tanto che questo micro/macro segmento biografico dell’esperienza del personaggio si riflette su ogni sua piega antecedente e successiva di vita e carriera, filmografia e leggenda, con una straordinaria forza rivelatrice. Si può dire insomma, da lettori, studiosi e appassionati, senza soluzione di continuità, tutti fruitori assecondati dall’incessante storytelling, che c’è tutto Welles, solo in apparenza e per mere ragioni cronologiche circoscritto al periodo tricolore che va dal 1947 al 1953, ovvero da Cagliostro di Gregory Ratoff a L’uomo, la bestia e la virtù di Steno.
Restituire o riassumere l’ampiezza di questa porzione dilatata di esistenza, residenza e sopravvivenza creativa di Welles è praticamente impossibile, se non provando a dimostrare in termini pratici l’efficacia delle pagine e dei singoli capitoli. Ad esempio partendo proprio dal dato pirandelliano di fondo cui Anile giunge da lontano, ovvero dai precedenti Il cinema di Totò (1930-1945): L’estro funambolo e l’ameno spettro (Le Mani, 1997), quindi a maggior ragione il sequel I film di Totò (1946-1967): La maschera tradita (Le Mani, 1998), quindi Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto (Cineteca di Bologna, 2017). Tenendo cioè d’occhio il tredicesimo capitolo intitolato Mascherate, si nota come l’interazione Pirandello-Welles, più che nel citato film di Steno (comprensibile e apprezzabile se lo si guarda e prende come un film di Totò e non da Pirandello, con Welles appena nel mezzo), risalta meglio come trasgressione tematica più che narrativa nella sceneggiatura a tutt’oggi inedita dell’Enrico IV, intitolata Masquerade, da non confondere con l’omonimo titolo italiano del film di Joseph Leo Mankiewicz, The Honey Poy (1967), sebbene il fratello Herman Jacob avesse scritto la sceneggiatura proprio di Quarto potere. Come raccontava il “cittadino Kane” in persona a Peter Bogdanovich nell’ormai classico Io, Orson Welles (Baldini & Castoldi, 1993), questo curioso “disadattamento” gli stava molto a cuore: «Ci ho passato dei mesi su quella sceneggiatura. Se mai desiderassi pubblicare una mia sceneggiatura, vorrei che fosse quella. Era un rifacimento completo sul tema pirandelliano, non era una versione cinematografica del dramma». Emblematica è infatti la scelta di questo “ultimo Imperatore” per antonomasia (nell’originale dattiloscritto “The Emperor”) dai tratti molto edipici, capace di colpire il figlio con un candelabro esplicitamente fallico, ergo castrante fino a indurlo alla proverbiale, pirandelliana pazzia mascherata. Non per niente la recita di un “Imperatore” sui generis, proprio in quest’isola dell’Adriatico, denominata Illyria, al largo delle coste pugliesi, presenta indizi gravi, precisi e concordanti del capolavoro Quarto potere. Tira talmente tanta aria della Xanadu del capolavoro wellesiano in Masquerade, da far quindi retrocedere a “tema” la matrice riconducibile a Pirandello.
Sono i corsi e i ricorsi sul grande e piccolo schermo di opere letterarie e teatrali dei “disadattamento”, per adoperare un lemma preferibile a quello corrente di “adattamento” che anche in territorio pirandelliano molti equivoci ha generato in oltre un secolo di storia congiunta del cinema e della televisione. Ed Enrico IV in chiave audiovisiva ha sempre indotto i cineasti ad aggirare il prototipo scenico dotato di una fitta trama verbale. Amleto Palermi per primo lo concepì in Germania altresì muto e con il titolo divergente Die Flucht in die nacht (1926) su misura del sinistro di Conrad Veidt, icona espressionista. Marco Bellocchio, giocando invece di sponda con la “pazzia” attribuita ad Aldo Moro durante il sequestro, ha rimpianto per il suo provocatorio Enrico IV (1984), pur costruito sulla felice flemma discordante di Marcello Mastroianni, di non essere stato più ribelle, ovvero radicale nel tradire il linguaggio di Pirandello, evocando appunto il rigore muto adottato da Palermi. Ma è forse l’Enrico IV intermedio realizzato nel 1943 dall’esordiente Giorgio Pàstina, con la Repubblica di Salò e il crepuscolo mussoliniano sullo sfondo, a rendere tragicamente fertile la rima con il successivo Welles di Masquerade. La dimora folleggiante in cui nel film di Pàstina si auto-reclude il protagonista, ribattezzato Enrico Di Nolli, ovvero un Osvaldo Valenti spiritato, tanto lucido quanto predestinato, è esplicitamente modellata sin dalla scena inaugurale su quella del Charles Foster Kane di Welles in Quarto potere, altrimenti inaccessibile se non per l’invasiva istanza indagatrice della macchina da presa.
La concatenazione che passa attraverso il codice pirandelliano di Enrico IV, più di quanto l’interessante e sottovalutato innesto della coppia non assortita di Totò e Welles in Pirandello con L’uomo, la bestia e la virtù non avesse fatto sperare, è materia complessa e ramificata, almeno quanto quella dello scalo italiano di Orson Welles. Il quale, guarda caso, un mese dopo l’arrivo a Roma, era a tavola con il segretario comunista Palmiro Togliatti, di sera, con uno sciopero generale imminente. I due parlarono davvero delle cose di cui i resoconti di allora furono prodighi? Quando la realtà supera l’immaginazione e nel casting entrano di soppiatto “The Emperor” e “Il Migliore” messi di fronte a una pizza, è inevitabile che l’ineffabile immaginazione declinata in legittimo sospetto si riprenda lo spettante spazio storico, politico e indiziario.
Alberto Anile, Orson Welles in Italia, La Nave di Teseo, Milano 2023.