Se sono condannato, sono non solo
condannato a morire ma anche
condannato a difendermi fino alla morte.
Kafka, Diari, 1916
Bisogna pensare ai bambini,
come vanno malvolentieri a letto.
Mentre dormono,
potrebbe accadere qualcosa
che richiede la loro presenza.
Benjamin, Franz Kafka, 1934
Che cosa resta, se resta qualcosa, dell’opera di Kafka dopo un secolo? C’è ancora una rimanenza, lacerti, chissà, qualche brandello, dopo che Kafka da cento anni sembra infilarsi dappertutto, impossessandosi persino dei nostri sogni? Il destino assurdamente popolare di Kafka, in realtà, lo aveva intuito già Walter Benjamin, quando nota in maniera acutissima e sconcertante: «Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse» (Kafka, la scrittura della destituzione? 2018, p. 8). Perché le masse dovrebbero sognare Kafka senza, forse, neanche saperlo?
È lo stesso Benjamin a fornire un indizio: la scrittura di Kafka, la sua scrittura della frantumazione, costituisce – ma senza rimuovere, anzi approfondendo sino all’inverosimile la catastrofe che ci avvolge – una sottilissima architettura della diserzione, del «darsi alla macchia» (Una relazione per l’Accademia), un’inflessibile ricerca di vie di fuga dove, in realtà, nessuna via di fuga sarebbe per principio disponibile; vie di fuga, innanzitutto, ça va sans dire, da sé e dalla scrittura. Come concepire questa defezione nella scrittura dalla scrittura? Probabilmente orchestrando una maglia di piccoli gesti frammentati e ciò nonostante segretamente concatenati, perché ciò che li tiene insieme è lo stesso principio – il loro carattere indeterminato, le correlazioni intermittenti – che li separa.
L’opera di Kafka, tra le mani di Benjamin, diventa una costellazione di gesti in grado di corrodere il valore (simbolico) della Legge: l’autorità del padre, di coloro che puniscono e comandano, sino a giungere all’estinzione di questa stessa opera di demolizione, la cui funzione deve svanire per non assumere essa stessa una posizione sacrificale e regale. A dieci anni dalla scomparsa dello scrittore di Praga, nel 1934, Benjamin lo spiega bene: «Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove» (2004, p. 136).
La più sottile spietatezza di Kafka è la continua allusione a una verità che non esiste, evocando il permanente rinvio alla decifrabilità di situazioni destinate, fatalmente, a restare indecifrabili. Questo è il compito che si affida alla scrittura che coincide con un gesto: determinare lacune, vuoti, sconcerto senza, però, indugiare nell’oscurità dell’avanguardia. In Kafka, il gesto è un evento che non appartiene a nessuno; neppure al suo autore. Lievissimi gesti tessono sussulti e connessioni imponderabili nel cui intrigo si consuma uno sbigottimento simbolico, psicologico, estetico abile a scomporre gerarchie, impedendo la plausibilità di qualsiasi interpretazione.
Enigmaticità e semplicità del gesto, così scrive Benjamin a proposito di Kafka. Vale a dire, il gesto, per quanto quasi impercettibile ed elementare, si rivela inaudito, distante da qualsiasi ritualità e possibilità di previsione. Se la scrittura è una sequenza di gesti, voragini, un illimitato peregrinare, ossia, se elude ogni tipo di consuetudine linguistica e narrativa, è perché contiene una riserva animale, estranea a ogni canone consolidato. In questa maniera, lasciandoci perdere l’orientamento, la scrittura schiude una breccia che ci costringe a pensare:
Si possono leggere per un buon tratto le storie animali di Kafka senza avvertire che non si tratti di uomini. Quando s’imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane o la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo. Ma Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine (ivi, p. 137).
In Kafka il gesto probabilmente non rappresenta l’invenzione di una (nuova) forma, ma, più ambiguamente, ciò che potrebbe suscitare lo spazio per questa eventualità. Il gesto, infatti, non preesiste alla scrittura, ma va scritto perché non sta scritto da nessuna parte che il gesto avvenga; insomma, a sua volta, va immaginato. Recentemente Gianluca Solla, in un suo libro notevole dedicato a Benjamin, raccoglie la sfida di decifrare la fisionomia del gesto in Kafka:
Quelli dell’universo kafkiano sono gesti a volte bizzarri, altre curiosi, in ogni caso sempre singolari. Uniscono alla loro apparente semplicità un carattere non più pienamente umano e quasi-animale. Da questa unione scaturisce la loro natura enigmatica. Sono gesti di creature – uomini o animali non si sa, spesso l’attribuzione resta incerta – che conducono il lettore lontano dai territori abituali, dove si perde ogni punto di riferimento (Solla 2023, p. 138).
Naturalmente insistere con la scrittura, nonostante sia chiamata a decretare la propria stessa eclissi, è un gesto insopportabile e un po’ indecente (questo è il tema – ma si può sinceramente sostenere che i testi di Kafka abbiano un tema? – celeberrimo de La colonia penale). Kafka, d’altronde, è lo scrittore che offusca la fine dell’opera simulando la sua sopravvivenza, operando e mascherando al contempo la sua auto-dissoluzione.
Probabilmente più di ogni altri è Guattari a comprendere che da un certo momento in poi, precisamente dopo l’incontro con Felice Bauer, per Kafka si tratta, nel proprio rapporto con la scrittura, nient’altro che di sopravviverle in qualche modo (Guattari 2009, p. 33). È questo il motivo allora che rende le sue intenzioni difficili da maneggiare: simula incessantemente una resistenza che non c’è e che tuttavia sembra affiorare ai bordi della scrittura. Kafka, in effetti, scrive continuamente della scrittura, e lo fa innanzitutto per disinnescare l’ambizione mai sopita della letteratura di consegnare un senso, persino perverso, ma pur sempre un senso, alla realtà.
La spirale della scrittura in Kafka – estrema via di fuga e, al contempo, conferma indissolubile dell’assenza di qualsiasi chance di evasione – è acciuffato da Giorgio Agamben, quando riesce a scovare ciò che sembra sfuggire sia ai giudici sia all’incriminato nel Processo intentato ai danni di Josef K. Qual è la sua colpa? Nessuna. O meglio: è colpevole di auto-calunnia. La perdita dell’innocenza, dunque, non è colpa di nessuno; se non, appunto, dell’innocente: «L’accusato, in quanto si autocalunnia, sa perfettamente di essere innocente ma, in quanto si accusa, sa altrettanto bene di essere colpevole di calunnia» (2009, pp. 35-36).
L’innocenza rappresenta la colpa più grave, equivoca e inconfessabile, in un mondo senza innocenza. Si comprende allora perché la causa del processo cui è sottoposto Josef sia apparentemente inesplicabile: sotto accusa è l’innocenza; sotto accusa si rivela la stessa situazione che rende colpevole, estremamente colpevole, un innocente. Kafka è colpevole! La vergogna di scrivere, che alimenta per intero la sua scrittura, sta tutta qui: nell’averci provato. Nell’aver tentato, in fondo, l’impossibile: l’auto-dissoluzione della scrittura come una forma di esilio privo di clamore; una lontananza dalla sovranità del senso come l’indice più affilato di governo della vita moderna. Non è difficile a questo punto dare ragione a Maurice Blanchot, che a proposito di Kafka scriveva: «Non si tratta di maltrattare la letteratura ma di tentare di comprenderla e di vedere perché non la si può comprendere che disprezzandola» (1983, p. 10).
Il gesto: si tratta dappertutto di accenni, indicazioni pressoché impenetrabili e sparpagliate; tuttavia, nulla di epocale. Eppure, avvertiamo una tensione speciale, piccoli lampi inconsueti, perché il gesto-evento accade, se accade, in un universo dove, secondo tesi notissime di Benjamin, sono proprio i gesti impegnati a eludere il già conosciuto a dileguarsi nella reificazione fantasmagorica delle nostre esistenze; quando, per l’uomo moderno, ogni esperienza, cioè, qualsiasi gesto in-differente all’implacabile processo delle cose-merce, appare precluso. È (sempre) troppo tardi: una mano prende alla gola e avvertiamo che cosa può voler dire vivere, sopravvivere, soffocando. Non c’è allora molto da fare per non diventare un materiale tra gli altri; non restano altro che gesti minuscoli, irregolari; non resta che trascrivere sogni che descrivono la nostra fine. Nel racconto Un sogno, Josef K. sogna (desidera?) la propria sepoltura; presenzia alla preparazione della propria lapide:
Il primo, piccolo segno che egli tracciò fu per K. una liberazione, ma con ogni evidenza l’artista lo portò a termine solo con estrema riluttanza; la scrittura non era più neppure così bella, pareva mancare soprattutto l’oro, il tratto si allungava pallido e incerto, solo la lettera riuscì molto grande […]. Una sottile crosta di terra era stata accumulata solo per l’apparenza; subito dietro di essa si apriva una grande fossa dalle ripide pareti nella quale K., voltato sulla schiena da una dolce corrente, sprofondò. Ma mentre là sotto, con la testa ancora sollevata, già veniva accolto dall’impenetrabile profondità, sopra, sulla lapide, correva con grandiosi ornamenti il suo nome. In estasi per quella vista si svegliò (Kafka 2023b, p. 79).
C’è un’idea meravigliosa e agghiacciante in Benjamin, mentre legge Kafka, forse in grado, almeno per un istante, d’indicare una rotta nell’arcipelago kafkiano: la speranza affiora soltanto dove termina la speranza, quando finalmente il mondo è lasciato a sé stesso. Non si attende più niente, orfani persino di una trascendenza qualsiasi, di un padre, di un’illusione, di un’assoluzione, di un destino, di un’opera da compiere. Tuttavia, soltanto in un cosmo privo di speranza e salvezza, e soltanto, sia chiaro, per gli accusati, i colpevoli, quelli senza nome, può comparire qualcosa che (prima) non c’era: «È forse questa assenza di speranza che fa emergere in loro la bellezza» (Benjamin 2004, p. 132).
La bellezza è il segno di un evento senza un rinvio a un altrove; un’apparizione che scansa il rimpianto di vivere senza alcuna speranza («come puoi sopportare di vivere in questo mondo»; Kafka 2023a, p. 38). La bellezza è la condensazione di un gesto privo di conseguenze accertabili, eredità, implicazioni; un gesto singolare e nient’altro. Un vuoto d’aria dell’esistenza che può avvenire laddove nessuno se lo aspetta: «La bellezza affiora, nel mondo di Kafka, solo nei luoghi più segreti» (Benjamin 2004, p. 132). L’inconscio delle masse, se non genera mostri, sogna e desidera l’universo di Kafka: un universo dove si resiste, senza farsi illusioni, alla fine del mondo (si resiste, in fondo, come faceva Charlot, senza neanche sapere di resistere).
Nel gorgo dell’apocalisse, per gli inutili, gli inetti, gli ultimi, scrive Benjamin, forse si fa avanti una speranza: farla finita con la speranza. Nulla a che vedere con una promessa escatologica, anzi: domina nei racconti di Kafka, quasi sembra di toccarla, una condizione inflessibile di attesa. Siamo catapultati in atmosfere e territori dove nulla, neanche (più) il nulla, può avvenire. Sulle cospirazioni dell’attesa in Kafka probabilmente un risultato inarrivabile è il racconto del 1917, Sciacalli e arabi:
Io sono, in lungo e largo, lo sciacallo più anziano. Sono felice di poterti dare infine il benvenuto qui. Avevo già quasi perso la speranza, poiché ti aspettiamo da tempo infinito; mia madre ha aspettato, e sua madre, e poi ancora tutte le loro madri fino alla madre di tutti gli sciacalli. Credilo! (Kafka 2023a, p. 36).
Che cosa resta di Kafka? Direi, prima di ogni altra cosa, niente: la sua assenza d’opera. Chi è? Uno scrittore senz’opera; nell’assenza sta l’essenza della (sua) scrittura. L’opera svanisce nell’opera; non fuori di essa. Benjamin chiama questa condizione in Kafka «disgregazione narrativa» (2004, p. 157). È opera della letteratura lasciare smarrire l’opera della letteratura; nella scrittura, in effetti, Kafka prova a non arrendersi.
Come non soccombere? Soccombendo; organizzando nella scrittura la sua estinzione: processi, colpe, debiti, condanne. Probabilmente ogni romanzo e racconto di Kafka, a questo punto, potrebbe rilevarsi l’estenuante, persino disperato tentativo di mettere alla prova una grande ambizione di Kierkegaard: «La mia posizione nella letteratura è la più corretta possibile: l’essere scrittore rimane un gesto». Kafka osa una scrittura che mette in scena la decapitazione dell’opera, ma senza andare oltre di essa, e ci riesce ripetendo sino all’inverosimile il suo gesto per condurlo, per eccesso di densità, alla mera insignificanza.
La scrittura abbandona l’opera: non prima e non oltre la letteratura, ma nella scrittura assaporiamo lo spazio della sua infinita fine. Percepiamo il pericolo, avvertiamo la faglia, quasi come se palpassimo il momento in cui la letteratura si arresta e l’opera si smarrisce. Una scrittura-gesto, quindi, è la scrittura che sa della propria frantumazione e solo per questa ragione può smarrirsi pienamente, scampando la “sovranità” del buon senso.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, “K.”, in Nudità, nottetempo, Roma 2009.
W. Benjamin, Franz Kafka. Nel decennale della morte, in Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004.
M. Blanchot, Da Kafka a Kafka, Feltrinelli, Milano 1983.
F. Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio, Napoli 2009.
F. Kafka, Sciacalli e arabi, in Un medico di campagna (1917), a cura di L. Crescenzi, Mondadori, Milano 2023a.
F. Kafka, Un sogno, in Un medico di campagna (1917), a cura di L. Crescenzi, Mondadori, Milano 2023b.
Kafka, la scrittura della destituzione, in “K.Revue trans-européenne de philosophie et arts”, 1, 2018.
G. Solla, Walter Benjamin, Feltrinelli, Milano 2023.