Infanzia berlinese intorno al millenovecento (Einaudi 2007) restituisce, tra le altre, l’istantanea di un Walter Benjamin bambino che gioca a infilare la mano dentro i calzini arrotolati nel cassetto e a rivoltarli al contrario per scoprirne l’interno. Ora dobbiamo immaginare che questa eccitazione infantile non si limitasse a frugare nell’armadio dei genitori, ma si divertisse anche a trafugarne i “tesori”, per ripetere più volte e al meglio questo gioco di rovesciamento. E dobbiamo immaginare che il Benjamin critico continuerà a capovolgere ciò che si trova davanti: concetti, immagini, fenomeni, espressioni di altri pensatori.
Il rovesciamento, la lacuna, la pausa, a partire da quel noto “stato d’eccezione” trafugato da Carl Schmitt, sono al centro del libro di Anna Migliorini Walter Benjamin e gli stati d’eccezione, che rinviene ben tre tipi stati d’eccezione nella filosofia benjaminiana: «Eccezione artistica, eccezione come regola e vero stato d’eccezione». Mancando in Benjamin una trattazione sistematica dell’eccezione, il percorso che Migliorini delinea «è necessariamente una struttura a posteriori e postuma» (Migliorini 2024, p. 158). Tuttavia proprio questa ricostruzione postuma è la cartina di tornasole che restituisce l’innovativa intenzione benjaminiana come gioco di rovesciamenti… e di furti. I furti possono essere appunto quelli del bambino che ruba gli oggetti messi via dall’adulto, pronti ad essere gettati perché ormai vecchi e inutili; li smonta e li rimonta, distruggendo l’ordine costituito “del mondo dei grandi”, ribaltando le configurazioni di senso preesistenti. Ma sono anche i furti dello stratega, che trafuga “armi”, parole, concetti dall’accampamento nemico e li schiera per la sua battaglia in disposizioni nuove e inedite, se è vero, a detta dello stesso Benjamin, che «il critico è stratega nella battaglia letteraria» e ancor di più in quella politica (ed esiste forse distinzione tra le due nell’opera benjaminiana?).
Gioco di rovesciamenti è quindi la critica benjaminiana, instancabile “voltare la carta” del dato storico e delle narrazioni del pensiero “dominante”. Emblema di rovesciamento, ma anche appropriazione del lessico del nemico è proprio l’uso benjaminiano del concetto d’eccezione. Migliorini, a questo punto, realizza una cartografia della riflessione benjaminiana in cui ogni punto d’arrivo è riconnesso ai suoi punti di partenza e guardato alla luce delle tappe successive.
A fungere da preziosi segnali stradali sono proprio le parole chiave della filosofia di Benjamin, seguite nelle derivazioni e nelle biforcazioni che subiscono lungo la parabola della sua vita e del suo pensiero. Si disegnano così svolte e avanzamenti di un «pensiero del confine» (Desideri 2010), che nasce proprio nell’eccezione, nella precarietà assoluta delle condizioni esistenziali. A questo proposito proprio il testo in cui compare per la prima volta il termine “eccezione” è la “famigerata” Origine del dramma barocco tedesco (Carocci 2018), opera che costò a Benjamin l’esclusione all’ambiente accademico tedesco costringendolo a vivere nell’indigenza. Qui compare per la prima volta l’eccezione innanzitutto nella forma dell’eccezione sovrana de La dittatura di Schmitt: la decisione del tiranno che irrompe nella situazione d’emergenza sospendendo la norma per salvare lo Stato, ma il suo aspetto miracoloso, eroico è rovesciato, eroso, smontato dall’interno. Il sovrano barocco è di fatto incapace di decidere e, in ultima istanza, “creatura” che nella morte si spoglia dell’imperium della soggettività umana.
Migliorini fa quindi tesoro del metodo dialettico benjaminiano e, al pari del Socrate macellaio del Fedro platonico, disseziona ogni parola avendo cura di spaccare i concetti seguendone la nervatura ambivalente, di ripartirne i lembi secondo direzioni opposte. “Choc”, ad esempio, è il tratto distintivo della vita schizoide della metropoli moderna, ma anche l’interruzione che caratterizza il teatro rivoluzionario di Brecht, la miccia che può fa saltar in aria il continuum del tempo lineare della storiografia dei vincitori che mette capo all’immagine del progresso. E proprio voltando la carta vincente del progresso, Benjamin trova la sua faccia oscura: la catastrofe.
La tensione verso rovina e catastrofe […] è un modo per descrivere la più generica esperienza impoverita, ugualmente esperibile nel campo della produzione capitalistica delle merci o nel contesto della vita della città velocizzatasi e frazionatasi nella metropoli […] il modo di funzionamento di una vita socio-economica che si crede in crescita malgrado ogni evidenza critica, e che invece, attraverso puntate sempre più grandi, tentativi conservatori o pianificatori, atteggiamenti pseudomessianici e speranze di catarsi riposte nella tecnica e nella guerra, e stati eccezionali giuridici per difendersi da nemici reali o anticipati, incrementa soltanto il livello di dissociazione tra il reale e lo sguardo critico su di esso, riducendo man mano la possibilità di una presa che possa davvero interromperne il corso (Migliorini 2024, p. 210)
Contro quale re nudo punta con indecenza il suo indice il “bambino/critico” Benjamin? Quale verità scomoda grida all’attualità il suo pensiero? «L’eccezione in cui viviamo è la regola». Sembra un paradosso da saltimbanchi del pensiero. O, ancora una volta, una capriola tipica dell’illogicità infantile. Ma quella di Benjamin è una critica che proprio nelle sue capriole ha il coraggio di fissare lucidamente il volto paradossale della crisi del proprio tempo, di riconoscere, come si legge anche nel saggio sull’opera d’arte (1936), che fascismo e capitalismo sono alleati e a poco serve lo stupore della storiografia e del pensiero progressista borghese del “com’è potuto accadere nel XX secolo”.
L’urgenza da cui scaturiscono le Tesi sul concetto di storia (1940) è perciò eccezione che diventa regola in almeno due sensi. Da un lato, nel fascismo e nel nazismo, si ha l’eccezione che conferma la regola nello stato di sospensione dello Stato di diritto volto non a sovvertire lo status quo borghese e il sistema di produzione capitalista, bensì a conservarlo, a tutelarlo dallo “spettro rosso” proveniente da est. Dall’altro, è proprio quella crisi d’esperienza che si è estesa a tutta l’età del capitalismo avanzato, e con cui l’ideologia nazi-fascista si pone in continuità, a divenire stato permanente (ma non necessario, pena la rassegnazione!), eccezione che è ormai regola, norma soggiacente alla quotidianità contemporanea, alla nostra quotidianità. Immagine estrema dell’eccezione come regola può essere allora la zona di interesse del film di Glazer in cui trova luogo la capacità ostinata di condurre la più normale delle esistenze accanto all’atrocità, zona di interesse che è anche inquietante zona di confine tra il culto capitalista dell’efficienza e la pianificazione meticolosa dell’orrore che ha caratterizzato lo sterminio nazista.
Come fare in modo che voltare la carta di questa falsa eccezione, trovandovi la regola, non rimanga solo gioco da bambini e tutt’al più da critici? Come voltare la carta della catastrofe trovandovi la redenzione, per passare da un’estetica dello choc e da una storiografia dell’interruzione a una politica che sia vera rottura dello status quo (la rivoluzione)? Come giungere a quella “vera eccezione” che Benjamin auspica sempre nelle Tesi? Come immaginare poi il soggetto che sarà fautore dell’eccezione, ammesso che di fautore si possa parlare? Merito di Migliorini è a questo proposito illuminare, come forse pochi hanno finora fatto, quell’unica costellazione in cui anti-soggettivismo, anti-antropocentrismo e antimilitarismo entrano in rapporto nel pensiero benjaminiano. È ricostruire genealogicamente in questo modo l’emergere di un soggetto politico in grado di disinnescare le prerogative “autarchiche” del soggetto moderno.
Quindi: trafugare, rovesciare e…? Non rimane forse un vuoto, tertium non datur nella proposta benjaminiana? Ma rifiutarsi di dare contenuto alla vera eccezione risponde in realtà all’intenzione espressa in Per la critica della violenza (1921) di rinvenire un potere che sia realmente destituente e non si cristallizzi in quel potere costituito in cui l’oppresso diviene a sua volta oppressore, rinnovando il ciclo infinito del potere/violenza (Gewalt). Ecco perché la proposta di Benjamin non può essere propriamente costruttiva, avere “scopo finale”, ma deve lasciare un vuoto in cui l’eccezione effettiva si disegna come “compito”. Dev’essere perciò distruttiva, come sa esserlo soltanto la critica.
E in questo gioco di rovesciamenti in cui si condensa il senso e la portata politica di questa critica come prodromo di una nuova storiografia materialista, si tratterà perciò di invertire la direzione su quella strada a senso unico del progresso che non riconosce l’effettività dell’eccezione, stenta a valorizzarla come punto di rottura, possibilità di svolta e preferisce piuttosto assimilarla a breve ed effimera interruzione “da lavori in corso” nella corsa del tempo progressivo e lineare. Ma, contrariamente a quanto insegna il senso comune, un’eccezione è tale solo se non conferma la norma, se non è strumento volto a ribadirla con maggiore vigore, ma se è accadere capace di eccedere l’esistente. Ecco perché per essere attuata richiede un rovesciamento, innanzitutto di paradigmi. Richiede il coraggio di un pensiero che si alimenta di paradossi, l’incoscienza infantile di chi “scherza col fuoco” pericoloso degli estremi perché soltanto «lo sguardo che estremizza la situazione estrema è la chiave del cambiamento» (ivi, p. 218).
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2007.
Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Id. Aura e choc, Einaudi, Torino 2012.
Id., Origine del dramma barocco tedesco, Carocci, Roma 2018.
Id., Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2019.
Anna Migliorini, Walter Benjamin e gli stati d’eccezione, Clinamen, Firenze 2024.