Il 12 settembre del 2008 si toglieva la vita uno dei più iconici, e talentuosi, scrittori americani dell’ultima generazione: David Foster Wallace. Aveva 46 anni e soffriva, fin dall’adolescenza, di depressione, male che lui aveva chiamato “la cosa brutta”. Il grande successo arriva con il romanzo Infinite Jest dove spicca il ruolo pervasivo dell’intrattenimento; un film misterioso che produce un vero piacere fisico. In molti suoi scritti evidenzia il legame tra scrittura e televisione, ed è proprio su questo legame che mi soffermerò.
David Foster Wallace è uno scrittore capace di tratteggiare un romanzo intorno alla filosofia del linguaggio Ludwig Wittgenstein, La scopa del sistema; di conseguire una laurea in filosofia sulla logica modale e, contestualmente, di ragionare su David Lynch, su Velluto blu (Lynch, 1986) e sulle repliche in tv di Mary Tyler Moore Show. Queste caratteristiche ne fanno un autore della corrente postmoderna, nel contempo lo rendono fruibile e affascinante. Molti dei suoi scritti si richiamano più o meno apertamente alla televisione, sia nei racconti, come nel lungo Verso occidente l’impero dirige il suo corso dove attori pubblicitari e spettatori di Hawaii-Five O (Freeman, 1968-1980) sono protagonisti, sia nei testi di non fiction.
Il più importante è sicuramente E Unibus Pluram. Gli scrittori americani e la televisione, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più). L’importanza di questo scritto non risiede nel fatto che uno scrittore (e un filosofo analitico) si occupi di televisione; più o meno negli stessi anni Karl Popper ci avrebbe consegnato il suo Cattiva maestra televisione, decenni prima anche Pasolini aveva inveito contro la stupidità della tv italiana. La novità e la ricchezza di Wallace risiede nell’aver evidenziato la relazione tra la tv e la nuova generazione di scrittori americani.
Tra gli anni ‘50 e ‘60, la metafiction (la letteratura postmoderna) usa diverse armi per attaccare la cultura dominate, moralista ed ipocrita: l’autoreferenzialità, l’ironia, il cinismo e il sarcasmo. Gli iniziatori sono John Barth e Donald Barthelme. Negli stessi anni, la tv è occupata a celebrare ancora quel tipo di cultura che la metafiction criticava:
La televisione intorno al 1960 con i suoi pistoleri solitari, le sit-com paternalistiche, i poliziotti mascelloni, celebrava quella che già allora era l’immagine profondamente ipocrita che l’America aveva di se stessa. […] Fate un confronto tra il modo in cui venivano presentati i personaggi che incarnavano l’onestà e l’autorità nelle trasmissioni dell’era pre-ironica – l’Erskine di FBI, il Capitano Kirk di Star Trek, il Ward di Beaver […] (Wallace 1999, p. 57).
Poi la tv si accorge del postmoderno e delle sue armi: «Ci metterò un po’, ma quello che voglio dimostrare è che il punto su cui letteratura e televisione si incontrano e trovano un’intesa è quello dell’autoironia consapevole. L’ironia è certamente un terreno su cui gli scrittori hanno lavorato con zelo per molto tempo» (ibidem). «L’ironia ci tiranneggia», afferma Wallace, è passata dalla rivolta al trono del sovrano, ed ora domina prepotente la contemporaneità televisiva e non: «La sit-com moderna, in particolare, è quasi completamente dipendente, nella comicità e nel tono, dalla demolizione sistematica, nata con M*A*S*H, di qualche ridicolo portavoce di valori ipocriti e pre-moderni a opera di insubordinati armati di un pungente sarcasmo» (ivi, p. 60).
Lo scrittore procede citando serie tv molto conosciute: negli anni ’70 si presentava al pubblico l’amicizia, la famiglia (Happy Days e La famiglia Bradford); successivamente il cinismo e l’ironia, unitamente all’autoreferenzialità, hanno minato questi valori, in una fase che Wallace definisce proprio postmoderna:
Ciò che rende l’egemonia della televisione così resistente alle critiche della nuova narrativa d’immagine è che la tv ha adottato totalmente le forme tipiche della stessa cinica, irriverente, ironica, paradossale letteratura del dopoguerra […] da dieci anni a questa parte [dagli anni ’80 in poi, N.d.R.], la televisione astutamente assorbe, omogeneizza e ripropone la stessa cinica estetica postmoderna che una volta incarnava la migliore alternativa alla seduzione della letteratura bassa, commerciale, ultra-superficiale.
Cinismo, autoironia, autoreferenzialità e irriverenza, sono divenute “la cultura”, e questo grazie alla grande diffusione e alle sei ore giornaliere di dipendenza degli americani dalla tv: «Il vecchio uomo medio Joe Valigietta può definirsi un teletilista. Ovvero guardare la tv può diventare una forma di nociva dipendenza» (ivi, p. 61).
Wallace assorbe la cultura dell’immagine e la serialità delle sitcom; questi elementi entrano nella narrativa e nelle argomentazioni della sua non fiction:
Una risposta è che il fenomeno televisione in un certo senso addestra e condiziona la nostra spettatorialità […] L’autoironico invito che rivolge la tv allo spettatore a rimanere lì davanti come per assecondare un capriccio, concedersi una trasgressione, […] è uno dei due modi ingegnosi in cui essa ha consolidato la sua salda presa di sei ore al giorno sui coglioni della mia generazione. […] […] la relazione più interessante è quella tra la televisione e la letteratura americana» (ivi, pp. 64-67).
L’essere uno spettatore “forte” condiziona il linguaggio, l’immaginazione e le relazioni sociali, nel saggio Futuri narrativi e i vistosamente giovani lo scrittore racconta come da ragazzi fosse fondamentale guardare episodi di Batman o di Selvaggio west, in modo da poter poi giocare replicandone le trame e i personaggi. Le serie televisive come I Simpson e I Griffin, e il vero “angelo sterminatore” degli ironici anni ottanta, David Letterman, rappresentano proprio questa cultura del cinismo e dell’irriverenza salita a dogma e a valore condiviso. Da queste narrazioni emerge una rappresentazione della realtà che non ha soluzione, e non ne vuole fornire, alla deriva cinica espressa dalla società neo consumistica.
Sempre nel racconto lungo Verso occidente Wallace dice che la realtà diventerà fiction che diventerà realtà. E la tecnica degli accademici postmoderni dominerà senza più regole. La dinamica è stata questa: ironia e cinismo sono le armi usate dalla letteratura postmoderna per attaccare la morale degli anni ’50; le stesse armi sono state usate dalla tv, che con il suo potere pervasivo ha “contagiato” l’intera società, la politica e l’economia.
Alla letteratura postmoderna si deve reagire con una letteratura realista, all’ironia della tv si risponde con la sincerità. Una puntata dei Simpson, uscita nel 2012, è intitolata Una cosa totalmente divertente che Bart non farà mai più e celebra il saggio di David Foster Wallace mandando la famiglia Simpson su una nave di lusso. È una crociera iperbolica, la nave è così grande da poter ospitare a poppa delle montagne russe, e così sofisticata da offrire ai vacanzieri sessioni di Lego Architecture con Rem Koolhaas.
La cultura di massa domina e si espande, inglobando tutto e tutti, anche lo stesso Wallace, lo scrittore che con la sua opera ha criticato la prepotenza dell’intrattenimento, come la pre-potenza della tecnica in Heidegger. Il ragazzo con la bandana che con la letteratura “voleva capire cosa significa essere un fottuto essere umano”, non avrebbe gradito l’omaggio di Matt Groening. Passare da persona a personaggio di un cartone animato non è funzionale alla conoscenza dell’uomo, anzi è il salto verso l’impersonale. Ecco perché il suo capolavoro Inifinite Jest è il resoconto, sapientemente scritto, di quanto sia triste essere cittadini americani tra i ’90 e il 2000.
Riferimenti bibliografici
D.F. Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, minimum fax, Roma 1999.
Id., Verso occidente l’impero dirige il suo corso, minimum fax, Roma 2012.
Id., Infinite Jest, Einaudi, Torino 2010.