Il punto di partenza è quantomeno inusuale: prendere il libro che il filosofo americano Stanley Cavell ha dedicato al cinema hollywoodiano classico (Alla ricerca della felicità) e provare a creare una nuova commedia del rimatrimonio, invertendola però di segno. Il libro, probabilmente, fa parte del tipo di letture abituali del regista; il procedimento, necessariamente, passa attraverso una modifica dello schema hollywoodiano, visto che il film è ambientato nella Madrid di oggi; l’obiettivo, di conseguenza, non è più quello di giungere a una nuova unione tra i due protagonisti (con il divorzio che aleggia come esplicita minaccia), bensì a una separazione della coppia – che però, come nel modello originario, va celebrata in grande stile.

Questo sembrerebbe essere, nelle sue linee essenziali, Volveréis di Jonás Trueba. Il film, che ha esordito alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes nel 2024, conclude quella che a posteriori potrebbe considerarsi come una sorta di trilogia, iniziata nel 2019 con La virgen de agosto e proseguita nel 2022 con Tenéis que venir a verla. Date le premesse, si intuisce che il tono da commedia – mutuato da registi come Frank Capra, Leo McCarey, Howard Hawks, George Cukor e Preston Sturges – è qui mantenuto ma sottoposto a una modificazione genetica, stralunato, tutto giocato in sottrazione, in modo che il film si inscriva come per magia nell’impianto dei due precedenti, risultandone come la prosecuzione non prevista perché sempre di amore, sempre di coppia si tratta, ancorché in maniera piuttosto diversa. Ed ecco che in effetti questa commedia romantica sui generis comincia subito ad assumere tratti più articolati.

Per il filosofo danese Kierkegaard, citato esplicitamente nel film, «l’unico amore felice è quello della ripetizione», perché «non conosce l’inquietudine della speranza, la sfida angosciosa della scoperta, ma in più gli è ignota la mestizia del ricordo – ha la sicurezza beata dell’istante» (Kierkegaard 1996, p. 12). L’istante ripetuto nelle sue variazioni e differenze è al centro della relazione di coppia raccontata in Volveréis, che vede i due protagonisti – la regista Alejandra, interpretata da Itsaso Arana, e il suo attore Alex, interpretato da Vito Sanz – impegnati a vivere la fine di una relazione. “Dovremmo fare come dice tuo padre”, afferma lui all’inizio del film, ovvero festeggiare quando una coppia si separa, non quando si unisce. Elaborare il trauma coinvolgendo amiche e amici di una vita in una grande festa finale. “Ma è una stupidaggine”, risponde lei: festeggiare un divorzio potrebbe funzionare forse in un film, ma nella vita reale? È a partire da questa suggestione che i piani si intersecano, la vita si mescola al cinema, il film che Alejandra sta girando diventa quello a cui stiamo assistendo e l’ipotesi iniziale finisce per confondersi con il suo svolgimento.

All’origine c’è dunque una sfida: è possibile fare un film su una frase, trasformando un vago ricordo in uno stimolo creativo? La frase, l’idea, ha una genesi reale e risale a un’affermazione del padre di Jonás, il più noto regista e sceneggiatore Fernando Trueba, qui coinvolto anche come interprete: non bisognerebbe festeggiare i matrimoni, bensì le separazioni. Non è la prima volta che Jonás Trueba realizza un film apparentemente fatto di poco, in cui una singola idea, un ricordo o un’esperienza sono l’input da esaminare, come se ogni occasione fosse buona per mettere costantemente alla prova il cinema stesso, la possibilità che esso nasca da (e si ritrovi in) ciò che è davvero indispensabile: un’atmosfera, dei corpi, i loro movimenti nello spazio, la luce che illumina i loro volti. E ogni film fosse in fondo solo una scusa per passare del tempo con delle persone, esplorarne le potenzialità, provare a conoscerle meglio, vita e cinema trovandosi a essere davvero indistinguibili. Ogni ripetizione sperimenta allora la differenza e la variazione, tra film e film e dentro ogni singola opera: di qui il gusto di lavorare quasi sempre con gli stessi attori per fare di quelle persone dei personaggi di finzione e costruire insieme a loro la storia che si vuole raccontare.

La condivisione è in effetti un tassello essenziale. Itsaso Arana e Vito Sanz sono qui anche co-sceneggiatori, e che gli attori abbiano la possibilità di scrivere il film insieme al regista è senz’altro uno degli elementi di grande interesse del metodo di Jonás Trueba. Un metodo non univoco né monolitico, che si fa continue domande sulle forme possibili del cinema narrativo e tenta di elaborare corrispondenti strategie produttive che siano in grado di garantire libertà espressiva, indipendenza e creatività. La recitazione dei due interpreti, che condividono costantemente lo spazio fisico delle inquadrature, è tutta incentrata sullo stupore che traspare dai loro occhi quando raccontano a chiunque incontrino della decisione di separarsi: uno stupore che va considerato una messa alla prova di quella decisione. Come a dire che se ci credono gli altri (amici, parenti e semplici conoscenti) allora sarà vero anche per loro, che pure se ne dichiarano fermamente convinti sin dall’inizio – nonostante facciano tutto insieme, persino cercare la nuova casa in cui uno dei due andrà ad abitare, e neanche uno split screen riesce a tenerli davvero distanti. La ripetizione è pertanto un meccanismo di verifica. L’ironia, naturalmente, è data dal titolo stesso del film, Volveréis, che significa “tornerete insieme”, e “volveréis” è proprio ciò che tutti rispondono ai due nel ricevere la notizia. Percorrere questo itinerario di verifica consentirà ai protagonisti di interrogarsi più a fondo e guardarsi reciprocamente con rinnovata curiosità, scoprendosi nuovamente e lasciando così aperto il futuro: chi dice che dopo la separazione non ci sarà effettivamente un ritorno?

«Chi non è convinto ardentemente che l’idea sia il principio vitale dell’amore e che, se necessario, per essa si debba sacrificare la vita, ed anzi quel che è più, l’amore stesso, foss’anche il più favorito dalla realtà – costui è escluso dalla poesia» (ivi, p. 24). La verifica dell’amore passa dall’eventuale necessità di sacrificare l’amore stesso, per aprirsi alla possibilità di rafforzarlo in maniera meno scontata e più poetica. Non è allora tanto sulla cinefilia – cui spesso si fa riferimento – che bisogna concentrarsi nel guardare i film di Trueba, quanto piuttosto sulla philía nel cinema: la sua capacità di creare uno spazio per l’amicizia, il sentimento d’amore che lega il regista agli attori, alla sua città (qui come in altri suoi film mostrata splendidamente) e alla sua generazione. Perché è vero, senza dubbio, che il suo gioco solletica il piacere dei cinefili: come potrebbe essere altrimenti, se a un certo punto incrociamo il set della serie Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen e il suo protagonista Francesco Carril, altro attore ricorrente nei film di Trueba? Se si discute ironicamente, quasi allo specchio, di un film sui rapporti di coppia come 10 di Blake Edwards? O ancora, se per provare a dare risposta a dubbi esistenziali si utilizzano dei tarocchi tratti dai film di Ingmar Bergman? Ma è anche vero che i film di Trueba hanno continuato a mostrare in tutti questi anni (sin dall’esordio nel 2010 con Todas las canciones hablan de mi) la capacità di interrogarsi e dare spazio ai desideri e alle preoccupazioni della generazione di chi ha oggi poco più di quarant’anni, facendo del regista spagnolo un esponente significativo di quello sguardo generazionale che è possibile ritrovare in altri registi di dieci o vent’anni più grandi, come il francese Emmanuel Mouret o lo statunitense Richard Linklater, cui sembra essere legato da un’aria di famiglia. Quello di Jonás Trueba – cineasta ancora poco noto in Italia, ma certamente tra i più interessanti del panorama spagnolo contemporaneo – è dunque il cinema di un regista sottile, di grande intelligenza ed eleganza. Le stesse qualità che è possibile ritrovare in El viento sopla donde quiere – Fragmentos de cine-vida a principios del siglo XXI, un libro appena pubblicato in Spagna che raccoglie alcuni dei suoi scritti sul cinema e in cui Trueba afferma: «Nei film, e nell’atto stesso di andare al cinema, alcuni di noi cercano di catturare la vita, ma anche di intensificarla. Quella stessa vita che, parafrasando un amico scrittore, a volte ci arriva come un soffio sottile, a volte come una tempesta» (Trueba 2025, p. 14).

Riferimenti bibliografici
S. Kierkegaard, La ripetizione, a cura di Dario Borso, BUR, Milano 1996.
J. Trueba, El viento sopla donde quiere, Athenaica, Sevilla 2025.

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