“What are you going to do Mrs. Graham?”.
Che cosa hai intenzione di fare? La quaestio etica che ha animato tutta l’ultima fase della carriera di Steven Spielberg sembra sempre più urgente. Dal fatidico 2001 in poi, infatti, il regista de Lo Squalo (1975) e della saga di Indiana Jones (1981-2008) sta ossessivamente tornando a immaginare gli eventi che ci hanno faticosamente definito come società democratiche sopravvissute al ‘900: dall’idealismo pragmatico del padre Lincoln (2012) alle trincee cinefile della Prima guerra mondiale (War Horse, 2001); dai chiaroscuri noir della Guerra Fredda (Il ponte delle spie, 2015) a quelli del terrorismo internazionale anni ’70 (Munich, 2005); dai fantasmi del Vietnam che gettano ombre lunghe sull’Occidente (questo The Post) a quelli di un’odierna deriva tecnocratica nella sci-fi postmediale (Minority Report, 2002).
Ma per riflettere consapevolmente su questo stratificato retroterra storico/culturale Spielberg abbraccia con convinzione una trasparente classicità di linguaggio che ha attraversato intere stagioni di cinema moderno, postmoderno, poi digitale, assorbendone ogni residuo stilistico e risolvendo in quest’ultimo decennio ogni nodo di natura formale. Eccolo il sublime paradosso spielberghiano: la sua macchina da presa sembra ormai invisibile, restituendoci uno sguardo sul mondo di cristallina nettezza, sempre a servizio di un dispositivo narrativo tra i più collaudati ed (apparentemente) elementari del cinema contemporaneo; eppure quella stessa macchina da presa è sempre in movimento, ossessivamente alla ricerca di qualcosa, disegnando sofisticatissime mappature emotive tutt’altro che elementari. Ogni lieve sussulto dell’inquadratura, ogni carrello e ogni zoom verso i personaggi, ogni piano-sequenza e ogni panoramica che li disloca nello spazio, ogni primissimo piano e persino ogni plongée che li schiaccia sotto il peso delle responsabilità (magnifico quello su Meryl Streep nel momento della decisione più difficile di The Post), ci sembra sempre un movimento giustificato da un sentimento. Suturando così il nostro sguardo a quello di uno schermo. Perché in Spielberg è ancora il raccordo umano a divenire stile, mai il contrario, in una preziosa lezione etica sulla messa-in-scena al di là di ogni questione ideologica da porre solo successivamente.
The Post è un film politico, quindi. Le prime sequenze sono già una vertigine: dopo l’incipit in Vietnam che dissotterra immagini e immaginari da New Hollywood (partendo dal poster di Butch Cassidy e arrivando dritti sino al Watergate), il film viene istantaneamente risucchiato nel controcampo di quel fronte. Cosa sono i Pentagon Papers? L’approfondito studio sulle strategie politiche e militari in Vietnam dal 1945 in poi (commissionato dal Segretario alla difesa Robert McNamara) dimostrava inequivocabilmente già nel 1967 l’impossibilità strutturale di una vittoria americana nella sporca guerra. E proprio quei documenti segreti, trafugati dal consulente/analista Daniel Ellsberg, vengono qui inquadrati come l’ideale sceneggiatura del nostro film consegnata alla “luce” di una fotocopiatrice/proiettore che fa balenare innumerevoli tracce mediali dall’archivio della memoria collettiva. I filmati televisivi dei discorsi di Harry Truman, Dwight D. Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon Johnson, la loro propaganda sul Vietnam e sulla necessità del reiterato intervento militare, puntellano come macigni il velocissimo montaggio alternato con gli occhi in dettaglio di Ellsberg.
Una puntuale contestualizzazione storica che salvaguarda ogni referenza immaginaria: Spielberg inizia il suo film interrogando i discorsi pubblici dei Presidenti e le ombre nascoste nelle pieghe dell’immagine mediale. Per poi passare a configurare una strutturatissima ragnatela dialettica dispiegata tra le stanze dell’alta finanza (dove l’editrice Kay Graham/Meryl Streep lotta per quotare in borsa il Washington Post mantenendone l’indipendenza) e la rumorosa redazione del giornale (dove il direttore Ben Bradlee/Tom Hanks lotta per procurarsi i preziosi Papers come fossero una nuova Arca Perduta); tra le strade delle contestazioni pacifiste (dove le notizie si sedimentano in movimenti d’opinione) e il perturbante esterno della Casa Bianca (dove Richard Nixon è “intercettato” in silhouette come un Imperatore starwarsiano passato al lato oscuro della forza). Un iper-testo di paradossale classicità che fa prima esplodere e poi riaggregare le sue tante linee narrative – come se Nashville (1975) di Altman incontrasse lo sguardo di George Lucas – restituendoci però un’esperienza di visione straordinariamente contemporanea.
Tutto il film, infatti, tende a configurare il peso emotivo, politico e sociale del verbo “pubblicare”: The Post va oltre i facili (e legittimi) riferimenti all’era Trump o agli odierni bavagli alla libertà di stampa, smarcandosi anche dai sottili (e pertinenti) richiami all’etica giornalistica in tempi di social network, fake-news o twittocrazia imperante. Perché i focus del discorso di Spielberg non sono mai i media o il potere in quanto tali, bensì i singoli individui che con private decisioni possono influenzare gli stessi media in quanto interfacce culturali. Spielberg esalta innanzitutto il lungo percorso che porta a una notizia: quali conseguenze ha la pubblicazione di documenti dichiarati top secret dal governo? Quali compromessi col potere limitano la libertà di stampa e quali rischi si devono prendere per informare il popolo? Insomma: cosa hai intenzione di fare Mrs. Graham? Il vecchio medium-cinema, pertanto, si arroga ancora oggi il compito di estrarre frammenti di purezza dall’impurità dei suoi materiali di partenza (vengono in mente le parole di Alain Badiou), esaltando l’atemporale anticorpo della “democrazia” come origine in divenire della nostra identità. Una tensione utopica verso quei principi di libertà, giustizia e libero arbitrio – da Democrazia e libertà di De Tocqueville sino al Primo Emendamento della Costituzione Americana – che innerva un tessuto ideologico di cristallina nettezza (prendere o lasciare) ricordando in diversi punti il cinema di Frank Capra o quello di William Wyler. Uno slancio idealistico, pertanto, che slitta costantemente sul piano estetico: Meryl Streep è sempre sovraesposta, mezzo tono di luce sopra gli altri, come una figura trascendentale dreyeriana che catalizza ogni sentimento al di là delle contingenze; Tom Hanks si muove invece tra le ombre, ricordando icone del cinema civile passato come Spencer Tracy o James Stewart e sottolineando a più riprese il suo statuto di star che transita per i generi hollywoodiani come tradizionali interfacce delle fobie americane.
The Post è un film sul tempo, allora. Prima di arrivare alla pubblicazione dei Papers sul New York Times e alla successiva lotta legale del Washington Post trascinato sino alla Corte suprema, Spielberg “perde” molto tempo pedinando i suoi protagonisti in piccole/grandi lotte quotidiane. I primi piani insistiti di Kay e i suoi continui risvegli (che ci fanno percepire più di ogni parola la condizione femminile dell’epoca), i sorrisi smorzati di Bradlee o le tensioni esibite di ogni reporter sul campo (in una stagione che ha eletto la paranoia come suo segno cinematografico), insomma il film concede sempre il giusto tempo ai suoi personaggi e alle loro azioni/reazioni nello spazio. Ecco che l’esaltazione dei tempi lunghi analogici (l’insistenza sui dettagli riservati alla carta, all’inchiostro, alle linotype, alle rotative, alle pile di giornali da aspettare al mattino) non diventa mai feticcio vintage da ricordare con nostalgia (come nel cinema del discepolo J.J. Abrams), bensì testimonianza di un discorso pienamente contemporaneo sullo stato delle cose. Perché questo è un film sui “processi” che ancora oggi esige la democrazia: la rotativa che finalmente si sblocca, inghiotte carta bianca e restituisce parole stampate all’alba di un nuovo giorno, “pubblicando” i Papers e sfidando il potere (“se non lo facciamo noi chi lo deve fare?”), è il frutto maturo di reiterati confronti, tentativi, fallimenti, compromessi, sentimenti, rischi e decisioni istintive. Un tempo della riflessione che per Spielberg ha ancora senso rivendicare al di là di ogni salto di paradigma tecnico che ridiscute ogni esperienza sensibile nei nuovi ambienti mediali (ed è imminente l’uscita del suo Ready Player One sulla realtà virtuale).
The Post è un film sulle persone, infine. Nel primo dei tanti incontri casalinghi tra Kay e Ben – atto iniziale di un’inchiesta che potenzialmente metterà in pericolo il futuro del giornale e la memoria affettiva della donna – il serrato confronto dialettico viene interrotto da un sublime momento di cinema che sembra arrivare dritto da un altro film (come fossimo in E.T. che telefona-casa). La piccola nipotina di Kay gioca con una palla colorata che Bradlee nell’enfasi del discorso prende in mano e sottrae al movimento. La bambina aspetta, sorride, si fa coraggio e chiede indietro la palla, poi torna semplicemente a giocare. E noi con lei: l’inquadratura si apre in profondità di campo, prende letteralmente vita, non può che essere calamitata dall’improvvisa bellezza di quell’attimo che scarta da ogni traiettoria attesa. Esattamente come a casa di Ben, dove la macchina da presa inizia a danzare in piano sequenza tra i tanti redattori che spulciano le migliaia di pagine trafugate, fermandosi però a più riprese sulla figlioletta sorridente intenta semplicemente a vendere bibite artigianali. The Post, insomma, riesce con disarmante semplicità a porre in primo piano la gravità di un dilemma morale tuttora urgente facendo avvertire in profondità di campo la levità infantile (del cinema) che preme su quell’immagine riconfigurandola.
Steven Spielberg ci crede ancora. Crede nel cinema e nelle sue potenze come possibile spazio di riflessione all’interno del consumo famelico di immagini (“la qualità deve essere l’unica garanzia di profitto”, si ripete più volte nel film). Perché se “la notizia è la prima bozza della Storia” come sentenzia infine Kay Graham, allora il cinema diventa ancora una volta per Spielberg la prima bozza della vita: “What are you going to do?”.
Riferimenti bibliografici
A. De Tocqueville, Democrazia e libertà, Hoepli, Milano 1945.
A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009.
F. Tarsia, E. Ilardi, Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano, Manifesto Libri, Castel San Pietro Romano 2015.