Negli ultimi anni di una vita breve, “non avventurosa” ma intensissima, Luigi Ghirri diceva di voler fotografare il respiro della terra. Quando aveva iniziato era stata proprio la terra a ispirarlo. Nel 1972 l’astronauta Harrison Schmitt dell’Apollo 17 scattò la fotografia del nostro pianeta ancora oggi ritenuta l’immagine più riprodotta di sempre, la cosiddetta Blue Marble: la terra si rivelò in tutta la sua bellezza e come un luogo familiare, anche se non era visibile alcuna presenza umana.
Ghirri rimase impressionato da un’immagine come questa, che allora suggerì idee utopistiche e persino insegnamenti spirituali. Nel 2012 la NASA realizzò una nuova versione di Blue Marble, che stavolta era un fotomontaggio formato da diverse immagini digitali prodotte da un satellite dalla cui orbita non era possibile vedere il pianeta nella sua interezza: un mondo quindi fatto di frammenti che davano l’illusione di un insieme, quello a cui ci ha abituati il digitale.
In realtà la visione frammentaria e manipolata del mondo non è una scoperta del digitale, ma della fotografia. L’importante è cercarvi dei significati e Ghirri è stato tra i fotografi che lo hanno saputo spiegare meglio. La sua riflessione consapevole e ininterrotta sui significati della fotografia, è restituita dal libro di Vanni Codeluppi, Vita di Luigi Ghirri. Fotografia, arte, letteratura e musica, il cui principale merito è quello di ricordare che il discorso sulla visualità coinvolge sempre dimensioni, immaginari e conoscenze dalle provenienze impreviste.
Anche le vicende biografiche, i luoghi di appartenenza, nella formazione di un’idea di immagine, non sono mai trascurabili. L’autore (che rivela un comprensibile coinvolgimento emotivo nei confronti di questo italiano “di provincia” divenuto uno dei più celebrati fotografi al mondo) ci racconta il percorso di progressivo radicamento di Ghirri nei suoi luoghi di origine, suggerendo come la pianura padana, con la sua nebbia, la dimensione comunitaria, e persino le sue giunte rosse, abbia condizionato l’intera produzione del fotografo.
Ghirri non è un fotografo “regolare”, ma sa che la fotografia custodisce alcuni segreti speciali. È un fondatore di cultura visuale, che è fatta di immagini che derivano certo dai libri paterni, dalle mostre visitate, dalla sua raccolta di cartoline, dalla sensibilità grafica, ma soprattutto dai lunghi tempi di osservazione, dalla letteratura, dalla musica, dall’immaginazione.
A Modena incontra, ancora giovane, gli artisti concettuali, crea materiali fotografici per le loro opere, e ne viene influenzato. L’incontro con l’arte, in particolare con quelle forme artistiche che per prime riconoscono senza pregiudizi – si potrebbe dire dopo cento anni – una dignità artistica alla fotografia, è importante. Franco Vaccari, modenese, presenta alla Biennale del 1972 Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, che invita i visitatori a ritrarsi con una macchina per fototessere e costruire loro stessi l’opera. La fotografia è ormai un rito di massa (le sue dinamiche sociali e la sua compulsività già predigitale le spiega negli stessi anni Susan Sontag), ma è soprattutto atto fotografico, è ideazione, è processo, prima ancora che risultato finale.
La fotografia per Ghirri ha un’identità duplice, ha la natura riflessiva e statica della pittura e quella dinamica e frenetica del cinema; è un enigma, è sempre un’apparizione, una rivelazione; e ciò che è fuori dall’inquadratura dice quanto ciò che sta dentro e forse anche di più («l’immagine continua nel visibile della cancellazione»). Le sue sono fotografie “lente”, per osservarle serve il tempo che richiede la musica (il suo amico Lucio Dalla ne percepiva un suono interno), esprimono il tempo denso contenuto nei quadri di Giorgio Morandi, di cui infatti fotografa lo studio alla ricerca della luce che fece vibrare i suoi soggetti.
C’è dunque un percorso assolutamente individuale ma c’è anche un contesto a influenzarlo, che è quello del passaggio degli anni settanta, che rivelano i limiti dello sviluppo ma anche, alla loro conclusione, che la messa in discussione radicale non basta. Per Ghirri la pratica fotografica è rieducazione di uno sguardo che deve essere decongestionato dall’accumulo diseducativo delle immagini; ma non c’è lo sguardo inquieto (o polemico, ribelle) di altri fotografi di quegli anni, piuttosto lo sguardo meravigliato dei bambini. Il suo fotografo di riferimento è Walker Evans, che comunica la meraviglia di far parte del mondo e che in un paesaggio cerca innanzitutto l’armonia.
Ogni fotografia è una riflessione sul vedere, ci sono spesso elementi che ricordano che ci troviamo dentro un’immagine: soglie, “cornici” naturali, finestre. Ghirri sa cosa vuole, senza pregiudizi: vuole restituire senso alle immagini, anche attraverso la rappresentazione delle banali cose quotidiane, a cui attribuisce un valore. Quando costruisce il suo Atlante, nel 1973, fotografa dettagli di mappe di un libro scolastico, ma in quei frammenti cerca il mondo, non li considera solo elementi di un insieme di per sé privi di significato. La scelta di fotografare cose banali è una scelta estetica, ma anche una necessità. Di professione geometra, si alza la mattina alle 5 e va al lavoro a piedi fotografando quello che trova per strada, crede che solo osservando ciò che conosce bene può scoprirne il lato inconsueto: insegne, vetrine, le villette a schiera della piccola borghesia che lui stesso contribuisce a costruire, i loro giardini condominiali, con tanto di nani e Biancaneve.
L’autore sottolinea giustamente che la prospettiva adottata da Ghirri è quella della pop art americana: non c’è un giudizio sugli oggetti di consumo di massa che fotografa, sono trattati piuttosto come “vischiosi oggetti d’affezione”, carichi di sogni e di desideri, di memoria. Sa che la natura delle società moderne è simulacrale e artificiale, ed è influenzato da Baudrillard e Deleuze; sa quindi che le rappresentazioni sanno illuderci, e lo mostra fotografando come un inganno della vista l’Italia in miniatura di Rimini.
Ma, a differenza degli artisti pop, lui osserva e fotografa i prodotti del consumo con uno sguardo oggettivo, senza manipolazioni; e anche con un colore “oggettivo”, intenso come quello che a questi oggetti appartiene, quello della pubblicità (era stata questa ad allontanare dal colore molti artisti-fotografi). Il colore è forse il lascito più importante di Ghirri alla fotografia, insieme a una nuova idea di paesaggio. Ghirri ama i luoghi, ed elimina la presenza umana dai suoi scatti. Anche di un concerto jazz fotografa i camerini vuoti mentre i musicisti si esibiscono, assenze piene di presenza.
Viaggio in Italia è un progetto collettivo la lui animato all’inizio degli anni ottanta, in cui coinvolge altri fotografi per rifondare la visione del paesaggio italiano; superare quindi il paesaggio pittorico e anche quello fotografico da cartolina. Ne nasce un paesaggio del tutto nuovo, sociale e antropologico, capace di esprimere umanità anche senza uomini, un paesaggio specificamente fotografico, dove i colori, stavolta tenui, sono quelli del sogno, del ricordo. Ghirri indica così alla fotografia italiana (e non solo) una nuova strada, che ha trovato senza allontanarsi dalla sua terra, nel primo luogo in cui ha esercitato lo sguardo, il suo paesaggio emiliano sospeso e indeterminato, dove il respiro della nebbia confonde le cose e impedisce di capire dove finisca l’inquadratura.
Riferimenti bibliografici
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata 2010.
Id., Kodachrome, Punto e virgola, Modena 1978.
L. Ghirri, G. Leone, E. Velati, a cura di, Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria 1984.
Vanni Codeluppi, Vita di Luigi Ghirri. Fotografia, arte, letteratura e musica, Carocci, Roma 2020.