A piedi nudi sulla sabbia, indosso un visore per la realtà virtuale e comincio a muovermi nello spazio. Scorgo alcune luci all’orizzonte, tutt’attorno una scarna vegetazione, sono nel deserto. Tra i cespugli un gruppo di persone – migranti che cercano di varcare il confine tra Messico e Stati Uniti – si avvicina risalendo un dosso. La polizia piomba sul posto e un elicottero volteggia minaccioso sopra la scena. Vengo investito da un fascio di luce accecante, dal rumore assordante del motore e da folate d’aria fredda smossa dalle pale del velivolo. È il caos, i militari con i fucili spianati gridano ordini. Un uomo tenta di fuggire, ma viene colpito. Ci sono delle donne, un ragazzino, un neonato tra le braccia del padre. Sui loro volti la stanchezza e la disperazione. Dopo un secondo passaggio dell’elicottero, d’improvviso tutto tace. Ora i migranti siedono attorno a un tavolo; minuscole figure umane e una sorta di nave sembrano affondare nel piano liquido del tavolo. Poi si torna alle perquisizioni e agli arresti. Mi avvicino ad alcuni migranti, mi chino per vederli meglio in volto, resto al centro dei due fronti. Ora provo a distanziarmi per vedere la scena nel suo insieme, ma qualcuno mi strattona alle spalle: mi sono avvicinato troppo alle pareti della sala e un assistente mi ferma. Torno al centro e a un tratto, per una frazione di secondo, l’immagine quasi subliminale di un cuore ripulsa di fronte ai miei occhi. Uno dei militari mi urla contro, sembra ce l’abbia proprio con me, mi punta il fucile al petto, mi fissa dritto negli occhi, il suo sguardo mi segue anche se mi scosto verso destra. Quasi alzo le mani, sto per gettarmi a terra, ma infine tutto è inghiottito dal buio.

Ecco un’approssimativa e personale descrizione della sezione centrale di Carne y Arena, installazione multimediale creata dal regista Alejandro G. Iñárritu in collaborazione con il direttore della fotografia Emmanuel Lubetzki, il compositore Alva Noto e gli ILMxLAB (alla Fondazione Prada di Milano da giugno 2017 a gennaio 2018). «La mia intenzione – sono le parole dello stesso Iñárritu – era di sperimentare con la tecnologia VR per esplorare la condizione umana e superare la dittatura dell’inquadratura, attraverso la quale le cose possono essere solo osservate, e reclamare lo spazio necessario al visitatore per vivere un’esperienza diretta nei panni degli immigrati, sotto la loro pelle e dentro i loro cuori». È la sintesi perfetta di un più ampio apparato di paratesti promozionali, discorsi e commenti critici (tutti entusiastici) che per descrivere l’esperienza immersiva proposta dall’installazione fa leva sulla retorica di empatia. In queste formulazioni si ritrova a ben vedere l’incontro tra una varietà di empatie: il passaggio dalla mera osservazione (implicitamente attribuita alla visione filmica) all’esperienza vissuta e diretta delle cose; il calarsi nei panni dei personaggi in scena, condividendo con loro lo stesso spazio e stabilendo una relazione intersoggettiva profonda che consenta di esplorare la loro condizione umana; la stimolazione e il coinvolgimento della corporeità – sottopelle, dentro al cuore. L’empatia sarebbe persino un’arma contro “la dittatura dell’inquadratura”, perché scardinerebbe i vincoli creativi e i limiti percettivi imposti dal regime cinematografico.

Carne y Arena segna certamente un passaggio importante nella storia della produzione e dell’esperienza mediale, elevando le potenzialità dell’incontro creativo tra tecnica e immaginazione, usando magistralmente il mezzo espressivo della realtà virtuale per comunicare anche a livello politico (siamo nell’era Trump…). Più che mai oggi abbiamo bisogno dell’empatia e di tutti i suoi media per accendere la nostra coscienza sul dramma delle migrazioni. Ma se la legittimità sociale e la necessità etica di questa operazione non possono essere discusse, discutibile è la retorica dell’illusione immersiva che circonda il dispositivo della realtà virtuale come evoluzione di quello cinematografico e di cui l’empatia sarebbe il mezzo e il risultato.

Non a caso la realtà virtuale ha trovato cittadinanza nelle ultime edizioni di rinomati festival cinematografici internazionali (Sundance, Tribeca, Cannes, Venezia) e in tutto il mondo cresce il numero dei “VR cinema”, spazi dotati di headset VR che propongono una programmazione dedicata. Ma ancora acerba è la riflessione teorica sulle forme dell’estensione multimodale dell’esperienza filmica attraverso la realtà virtuale. È significativo che la prima cosa che il visitatore è invitato a fare al suo arrivo alla Fondazione Prada è firmare una manleva in cui dichiara di essere a conoscenza del fatto che “l’Esperienza” può comportare rischi di una certa gravità: «danni fisici, mentali e di salute (come, ad esempio, nausea, senso di disorientamento, capogiri, vertigini, convulsioni, chinetosi, fastidi fisici in generale, mal di testa o ansia), dolore, sofferenza, invalidità temporanea o permanente e/o blocco emotivo». La sollecitazione (e la perturbazione) del sistema vestibolare dello spettatore e della sua affettività è indicazione evidente dell’immersività percettiva, cognitiva ed emotiva che la realtà virtuale può raggiungere radicalizzando il potenziale di coinvolgimento già insito nell’esperienza filmica. Ma nell’opera di Iñárritu il corpo dello spettatore è coinvolto a livello sensomotorio e tattile in una forma assai più esplicita rispetto all’esperienza filmica, in cui l’ingaggio multisensoriale si realizza casomai per via simulativa e aptica e in cui la vera interattività è cognitiva. In Carne y Arena la separazione del soggetto dall’ambiente reale è efficace, e forte è il senso di presenza con cui l’opera ci cala in eventi così distanti. Ma a ben vedere è proprio la proposta di tale ipersollecitazione corporea in un contesto tuttavia insuperabilmente spettatoriale (“Virtually Present, Physically Invisible”, recita il sottotitolo nell’installazione) a evidenziare alcune problematicità nella natura incarnata dell’esperienza.

Senza corpo
L’espressione “virtualmente presente, fisicamente invisibile” dovrebbe essere rivolta riflessivamente: si è fisicamente invisibili non solo ai personaggi, con cui non si interagisce concretamente in alcun modo, ma anche a sé stessi. Una volta indossato il visore infatti il corpo del visitatore scompare dal suo campo di visione, generando un paradossale conflitto tra stimolazione tattile (propriocettivamente percepita per quando riguarda le mani, e persino esplicita per quanto riguarda i piedi) e percezione visiva. Come ha scritto recentemente Pietro Montani, l’ambiente di Carne y Arena «provvede a dissociare alcuni dei nostri più collaudati automatismi (primo tra tutti quello del vedere e del toccare) proprio mentre predispone uno spazio esperienziale nel quale è necessario procedere con altre regole». Peraltro è proprio questo conflitto all’origine dei malesseri – vertigini, nausea, chinetosi – menzionati nella manleva. Ci si trova invece in un ambiente e in un’esperienza in cui la partecipazione e la sensibilità corporea sono sollecitate (certamente più di quanto non lo siano al cinema), ma al contempo denegate da una paradossale invisibilità. L’unico momento in cui si è presenti a sé stessi è quando, alla fine dell’esperienza, direttamente interpellato da un militare, lo spettatore si sente colto di sorpresa, “fisicamente visibile” agli occhi di un avatar.

Senza altro
Se inizialmente il visitatore si approccia alla parte in VR di Carne y Arena con circospezione, ben presto egli tende a portarsi al centro della situazione per poter apprezzare meglio gli eventi e vivere le emozioni, trovandosi di fatto nel fuoco incrociato (non solo in senso figurato) tra i due fronti – la polizia e i migranti, “noi” (U.S.) e “loro” (T.H.E.M.), come iconizzato nella locandina dell’installazione. Per quanto la libertà di movimento sulla scena sia funzionale a stabilire una relazione empatica con i migranti, alcuni aspetti riducono sensibilmente l’efficacia di questa tipologia di aggancio emotivo, anch’essi collegati alla paradossale componente corporea dell’esperienza. In primo luogo le concrete sembianze dei personaggi: sono poco realistici e più simili agli avatar dei videogame o dei mondi virtuali, pur se percepiti nella loro tridimensionalità plastica. In secondo luogo il fatto che, proprio in virtù della mobilità concessa al visitatore, è possibile avvicinarsi a tal punto agli avatar da poterli toccare… se non che li si scopre inconsistenti e li si può letteralmente attraversare – scoperta straniante che innesca non solo nuovamente un conflitto tra percezione tattile e percezione visiva, ma anche una contraddizione tra effettività emotiva e assenza materiale dell’Altro. Come rileva Montani, «Il visitatore ci mette poco a realizzare che mentre la “passività” (nel senso più ampio del “patire”) della sua partecipazione è intensificata dall’aisthesis specifica patrocinata dall’installazione […], nessuna vera “iniziativa” egli potrebbe prendere in quell’ambiente, in cui nondimeno si muove liberamente e a cui indubbiamente partecipa, in modo profondo, condividendo la paura e l’orrore dei presenti. Ma poi è altrettanto rapida […] la presa d’atto che quella passività è un elemento strutturale della macchina spettacolare  complessiva».

Senza schermo
Vengo alla “dittatura dell’inquadratura”. Il principale impatto dell’incontro tra cinema e realtà virtuale è un’ennesima estensione dei mutevoli confini del “filmico”. Ma l’apertura dell’orizzonte di visione a 360° mette in crisi alcuni dei parametri di base della visione filmica: i bordi dell’inquadratura, l’univocità del punto di vista, la guida eterodiretta dell’attenzione tramite il montaggio, le angolazioni e i movimenti di macchina. Lo schermo si è avvicinato talmente agli occhi da formare con la testa dello spettatore una sorta di “camera oscura” ed essere assorbito in sé stesso. Lo spettatore si muove all’interno di uno spazio-schermo totale che appare una sua proiezione psichica. Questa sorta di “spettatore intradiegetico” si trova a dover organizzare in proprio un testo apertissimo, monta e muove da sé la sequenza, con l’impressione di incarnare l’istanza enunciativa del testo che invece nel cinema stabilisce preventivamente una prospettiva univoca e immutabile. Non si tratta tuttavia di passare dalla “dittatura” all’anarchia. Anche negli ambienti virtuali vi sono punti del racconto in cui c’è un chiaro intervento di montaggio: per esempio la “sequenza” dei migranti attorno al tavolo, incastonata fra le due sequenze della retata; o ancora la fugace apparizione, quasi alla fine, di quel cuore pulsante. Il montaggio non si vede (fisicamente invisibile), ma c’è (virtualmente presente), poiché la rappresentazione sfrutta il richiamo attenzionale dello spettatore su un certo fronte per inserire oggetti o nuove situazioni sull’altro. Anche nella “proiezione” in RV continuano dunque a esistere dei “tagli”, per quanto invisibili, che rompono la continuità del “piano sequenza”, e continua a esistere un fuoricampo, il cui dinamismo anzi aumenta la centralità di ciò che inevitabilmente è escluso dal campo visivo.

Provo a riassumere: le condizioni di fruizione e il contenuto di Carne y Arena, esempio emblematico dell’ibridazione tra cinema e realtà virtuale, offrono certamente un’esperienza immersiva ed empatica. Tuttavia quest’esperienza, se analizzata fenomenologicamente, è soggetta a una dinamica più volte paradossale. In primo luogo è un’esperienza ipercorporea ma incorporea: per quanto investa letteralmente la corporeità dello spettatore, la eclissa nel suo stesso dispositivo, generando un conflitto tra stimoli tattili e visivi. In secondo luogo è un’esperienza intersoggettiva ma autosoggettiva: mentre lo spettatore c’è ma non si vede, il personaggio si vede ma non c’è, ed è proprio la possibilità della sua confutabilità fisica a interferire con l’empatia. In terzo luogo, è un’esperienza aschermica ma archi-schermica (per usare un’espressione di Mauro Carbone): l’estensione potenzialmente totale del campo visivo e l’apparente sospensione della sintassi formale della rappresentazione fanno corrispondere l’articolazione linguistica dell’opera agli stessi processi percettivi dello spettatore, ma le funzioni originarie dello schermo continuano a valere. Dunque un’esperienza che mira a estendere la corporeità, l’alterità e i confini spazio-percettivi ma a ben vedere si realizza senza corpo, senza altro e senza schermo. Un’esperienza immersiva ma costitutivamente anche emersiva, di avvicinamento e distanziamento, di rapimento e sottrazione: un’illusione empatica insuperabilmente parziale. Almeno fino a che le tecnologie dell’immaginazione non saranno totalmente innestate nella mente e i sensi umani intorpiditi al punto da impedirci di distinguere fra la realtà e la sua mise en abyme virtuale.

Riferimenti bibliografici
Alejandro G. Iñárritu presenta “Carne y Arena (Visually Present, Phisically Invisible)”, comunicato stampa.
Pietro Montani, Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica, Cronopio, Napoli 2017.
Mauro Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.

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