A proposito del contributo al cinema classico americano di émigrés europei, soprattutto tedeschi e austriaci, Elsaesser (1999) ha attribuito loro un ruolo decisivo nella trasformazione di Hollywood in un mondo immaginario, capace di animare finzioni, spaesamenti e realtà alternative. Ma dire che la macchina hollywoodiana ha radici europee significa anche far riferimento a una serie di esperienze concrete e reali che su questo immaginario hanno lasciato il segno, tra cui la migrazione e l’esilio.
Pensare al cinema dell’austriaco Billy Wilder seguendo questa prospettiva teorica è un’operazione diversa dal semplice resoconto biografico. Si tratta, invece, di riscostruire l’alterità di uno sguardo che indaga un mondo a lui estraneo, restituendone crepe e contraddizioni. Detto altrimenti, in America il regista si trova in una condizione di spaesamento, che lo sottrae alla «dimensione dell’ordinario, del familiare, del già visto», creando un impatto con l’altrove che «invita a cambiare direzione, mutare lo sguardo, prestare ascolto e attenzione» (Furia 2023, pp. 17-18). Nella sua rappresentazione di spazi, gesti, personaggi e valori profondi della società americana, Wilder dà forma a una geografia, le cui coordinate sono state identificate da Maurizio Grande, nel volume tematico dedicato al regista (Bulzoni, 2006).
Realizzando una mappatura dei motivi e temi che attraversano l’opera di Wilder, Grande va oltre la visione lineare tipica dell’indagine storica sul cinema, basata su fasi come inizio, maturità e declino, per proporre invece un modello reticolare in cui ogni tema e ogni film diventano nodi che si collegano tra loro. Ciò permette di collocare l’opera di Wilder in un contesto più ampio, in cui il cinema diventa uno specchio delle contraddizioni della società moderna e contemporanea.
Grande ci mostra come Wilder sia stato un regista capace di scavare negli strati della cultura americana per mostrare ciò che si cela dietro il mito: la disillusione, l’angoscia, la solitudine e il mascheramento. Nel cinema di Wilder, l’America non è soltanto il “Paese delle opportunità” celebrato dall’immaginario popolare, ma un luogo segnato da dinamiche sociali ed economiche ambigue. Come spiegato da Grande:
Si capisce come il viennese Wilder, emigrato per sottrarsi alla “civiltà hitleriana”, colga con sagacia le distorsioni di una civiltà diversa, i punti critici di una democrazia pagata a caro prezzo, le manifestazioni vistose di un costume e le contraddizioni di una cultura la cui qualità più evidente è quella che Stephen Farber ha chiamato «perversione del sentire». Wilder ha dovuto subito accorgersi che il segreto della civiltà e della cultura americana è celato in una verità elementare, nel fatto che tutto e tutti siano in vendita e che tutti vengano manipolati da tutti (2006, p. 85)
Il cinismo con cui Wilder guarda i valori americani viene reso nel suo cinema grazie a un lavoro su due generi, noir e commedia, che sono «basso-mimetici», come ricorda De Gaetano nella Prefazione usando la terminologia di Frye, per cui «si collocano in una dimensione che ha analogie forti con la sfera dell’esperienza comune» (De Gaetano in ivi, p. 11). Affrontando il conflitto tra individuo e società, la tensione tra sesso e denaro, e le dinamiche oppressive del capitalismo, i personaggi di Wilder si muovono in un contesto sociale dominato da leggi economiche spietate, dove l’innocenza è spesso corrotta e il cinismo diventa una strategia di sopravvivenza. In particolare, la riflessione di Grande identifica nell’opera di Wilder tre categorie di personaggi: i vinti, i sopravvissuti e i vincenti. Con i vinti Wilder racconta un fallimento simbolico: la figura del vinto è quella di chi tenta disperatamente di aggrapparsi ai resti di un mondo che lo ha rifiutato. I sopravvissuti, invece, navigano nelle contraddizioni della società, trovando un fragile equilibrio solo attraverso compromessi spesso dolorosi. Infine, i vincenti sono coloro che accettano pienamente le regole del sistema, ma a prezzo della propria integrità e autenticità.
In questa dialettica, Wilder mostra come il capitalismo e l’individualismo americani, anziché offrire libertà, richiedano conformismo e compromessi. In film come La fiamma del peccato o L’asso nella manica, Wilder mette in scena personaggi che cercano di piegare le regole del sistema per il proprio vantaggio, solo per scoprire che queste regole li schiacciano. Attraverso tali storie, Wilder esplora la tensione tra il mito americano del self-made man e la realtà di un sistema che premia il conformismo e punisce l’outsider. Questa prospettiva riflette la posizione di Wilder stesso, che, pur essendo riuscito a inserirsi nel sistema hollywoodiano, ne rimane un osservatore critico.
È in questa chiave che il cinema di Billy Wilder rappresenta un esempio straordinario di accented cinema (Gemünden 2008; Naficy 2001). Considerato uno dei maestri dell’intrattenimento di massa e perfettamente fluente nel linguaggio del cinema classico americano, i suoi film mantengono comunque un forte accento straniero. Con la sua opera, il regista americano di origini austriache riesce a intrecciare sensibilità e tradizioni culturali diverse, grazie alla sua condizione che lo posiziona “tra-due” continenti: una posizione liminale che gli consente di rappresentare la complessità dell’esperienza dell’esilio.
Nel cinema del regista émigré, l’esilio è rappresentato come una dimensione esistenziale. Nei suoi film, i personaggi spesso si trovano a margine della società, incapaci di integrarsi completamente. Questo è evidente in Giorni perduti, dove il protagonista lotta contro la dipendenza dall’alcol e contro un sistema sociale che lo isola. Anche in L’asso nella manica, il giornalista interpretato da Kirk Douglas è un outsider che tenta di manipolare il sistema, solo per essere sopraffatto dalle sue stesse ambizioni. In maniera più esplicita, troviamo la solitudine dei “diversi” in Stalag 17 e Vita privata di Sherlock Holmes, film in cui Wilder abbandona la struttura perfetta che caratterizza il suo cinema, per indagare più a fondo la figura dello straniero, in un gioco che «acquista la dimensione allarmante della rivelazione di un piano di significazioni che coinvolgono il regista in prima persona». E non sorprende allora
che in questo isolamento della macchina dell’intelligenza come macchinario sublime del giocare con se stessi e con gli uomini, qualcuno ha visto il mettersi in gioco di Wilder stesso. Wilder che rischia – come Sherlock Holmes – la sua propria immagine, l’immagine di colui il quale costruisce il mondo sulle trame dell’astrazione e dell’immaginazione analitica; come colui il quale assiste alla vita senza lasciarsene coinvolgere, come lo “straniero” che perlustra il paese che lo ospita e lo mette a nudo (Grande 2006, p. 51).
Nel percorso delineato da Grande, oltre all’analisi di tipologie di personaggi, ritroviamo anche una ricostruzione dell’ingegneria e della topografia alla base del cinema di Wilder. Mediante una serie di categorie che si riferiscono sia a temi che a configurazioni spaziali (America, Bianco & Nero, Denaro, Gioco, Macchina, Travestimento), Wilder può essere visto come un cartografo della modernità, un autore che mette in scena lo spettacolo cinematografico senza occultarne i trucchi.
L’identità europea di Wilder traspare nei suoi film, non solo per i riferimenti culturali diretti, ma anche per questo suo approccio ironico e disilluso. L’esperienza dell’esilio e della migrazione si traduce in un cinema che sfida le narrative lineari e l’happy end di Hollywood. Inoltre, Wilder porta con sé una sensibilità espressionista – ereditata dalla cultura visiva di Vienna e Berlino – che si manifesta nell’uso delle ombre e dei contrasti, tipici del noir, e nella propensione a rappresentare l’ambiguità morale dei personaggi.
Un esempio emblematico è Viale del tramonto, che mette in scena non solo la decadenza di una diva del cinema muto, ma anche una riflessione sulla caducità del successo e sull’alienazione della società americana. La villa di Norma Desmond, con i suoi echi di un passato glorioso ormai irrimediabilmente perduto, è una metafora della condizione dell’emigrato europeo: un luogo che trattiene i ricordi di un altro tempo, ma che non offre spazio per il presente o il futuro.
Con il genere della commedia Wilder espone invece le stranezze della cultura americana. «La meccanizzazione e la deumanizzazione appaiono solo come l’ultimo tratto di una stranezza di fondo della “civiltà”, un connotato che indica un livello comune, “popolare”, della cultura americana: la stranezza come carattere tipico del way of life americano» (Grande 2006, p. 83). Film come Baciami, stupido o Uno, due, tre! riflettono la sua capacità di osservare l’America attraverso una lente grottesca, che amplifica l’assurdità dei suoi rituali sociali e delle sue convenzioni culturali. Maurizio Grande sottolinea come Wilder sfrutti la commedia per esplorare il “mostruoso sociale”, mostrando una società che richiede conformismo a qualsiasi prezzo, anche a scapito dell’identità personale.
Grande evidenzia inoltre come l’ironia di Wilder funzioni come una forma di resistenza culturale, che consente al regista di rappresentare l’assurdità delle convenzioni sociali e delle strutture di potere. In commedie come A qualcuno piace caldo, l’ironia diventa uno strumento corrosivo utile allo smascheramento delle ipocrisie sociali, creando uno spazio in cui i personaggi sfidano le norme consolidate, sovvertendo temporaneamente i ruoli e i generi. Qui la commedia con i suoi meccanismi dirompenti diventa un modo per rivelare le assurdità della realtà e offrire una critica sottile ma incisiva delle strutture sociali.
In questo senso, il lavoro critico di Grande su Wilder può essere visto come una riflessione sulla natura del cinema, tra apparato produttivo e dispositivo semiotico: una forma creativa capace di ribaltare le regole dominanti e di renderle esplicite nel loro rovesciamento. L’analisi di Grande ci invita a considerare il cinema non solo come spettacolo, ma come uno spazio in cui si elaborano e si articolano i problemi della società e dell’identità. Wilder, con il suo sguardo disincantato e lucido, diventa così per Grande un testimone dell’epoca, un regista capace di rendere visibile l’invisibile, di mostrare ciò che la superficie patinata dell’American Dream nasconde.
Per Grande, il cinema costituisce dunque una forma di conoscenza, un linguaggio in grado di interrogare e trasformare la realtà. I mondi creati da Wilder diventano spazi in cui le forme dell’opera si intrecciano con le forme della vita, creando un punto di intersezione in cui il cinema diventa uno strumento per una riflessione critica del presente.
Dal lavoro tematico su Wilder traspare un’idea della critica come operazione teorica in grado di produrre nuovi significati e nuove connessioni. Mantenendo un rapporto ravvicinato alla specificità dell’opera e del suo contesto, l’analisi di Grande non diventa mai dogmatica, ma risulta sempre dialogica, in continua evoluzione. Solo in questo modo possiamo cogliere le complessità dell’opera di Wilder, illuminando non solo i significati espliciti, ma anche quelli latenti, le tensioni non risolte, le domande a cui non è semplice dare una risposta definitiva.
Se pensiamo alla critica come un’attività che porta l’opera in «mare aperto» (Benjamin 1982, p. 82) per estrarre il tratto universale dell’idea, Grande, con la sua mappatura e il suo approccio dialogico, realizza esattamente questo: trasforma l’opera in un punto di partenza per una riflessione che va oltre il cinema e che interroga il mondo stesso.
Il metodo critico di Maurizio Grande emerge come un esempio potente di critica stratificata. La sua analisi del cinema di Billy Wilder non è solo un contributo alla teoria del cinema, ma una pratica che restituisce al discorso critico il suo ruolo fondamentale: quello di articolare un campo di confronto e di riflessione, in cui le opere diventano strumenti per comprendere e trasformare la società.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti (1919-1922), tr. it., Einaudi, Torino 1982.
R. De Gaetano, Critica del visuale, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2022.
T. Elsaesser, Ethnicity, authenticity, and exile: a counterfeit trade? german filmmakers and Hollywood, in Home, exile, homeland film, media, and the politics of place, a cura di Hamid Naficy, Routledge, New York-London 1999.
P. Furia, Spaesamento. Esperienza estetico-geografica, Meltemi, Milano 2023.
H. Naficy, An Accented Cinema. Exilic and Diasporic Filmmaking, Princeton University Press, 2001.
Maurizio Grande, Billy Wilder, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2006.