Vent’anni. Carmelo Bene moriva a Roma il 16 marzo 2002. Una morte dolorosa, amara, quasi tragicomica a causa delle note vicende familiari. La morte di un uomo capace di «eccedere se stesso», come aveva tante volte predicato in vita, protraendosi di pochi anni oltre quel secolo (il Novecento) di cui era stato l’ultimo grande protagonista. In fondo, quei due anni che sconfinano nel nostro contemporaneo sono la reale essenza della vita e dell’arte di Bene. È come se l’avesse voluto vedere per un attimo quel “dopo” che non gli apparteneva più. Uno sguardo al pubblico da dietro il sipario alla fine dello spettacolo per prendere gli applausi e poi uscire finalmente di scena.

In quei due anni ha portato con sé il teatro del Novecento. L’ha fatto indirettamente, regalandoci una serie infinita di epigoni che ancora oggi affollano le scene dei nostri teatri (alcuni con successo, altri meno), gli schermi cinematografici e persino i salotti televisivi (memori delle indimenticabili serate al Maurizio Costanzo Show o al Processo del lunedì di Biscardi). Ma l’ha fatto soprattutto riannodando il tempo della contemporaneità con quello della Storia, con la sua genesi e il suo significato più profondo, spesso dissoltosi nei velleitarismi di alcune sperimentazioni insensate, di creazionismi privi di essenza e fondamento a cui abbiamo assistito in questo inizio di ventunesimo secolo.

L’ultimo grande uomo (di teatro) del Novecento. Ma in cosa consiste questo fondamento del teatro di cui Carmelo Bene ha rappresentato l’ideale chiusura, donandocelo e aprendolo al presente? In definitiva, tutta l’arte di Bene è una personalissima e originalissima rielaborazione del tema centrale della cultura teatrale novecentesca: il rifiuto della logica dell’azione, la sua sottrazione a qualsiasi piano «quotidiano» (come voleva l’antropologia di Jerzy Grotowski e Eugenio Barba) e la sua declinazione nell’atto quale «doppio» crudele della vita stessa (come pensava Antonin Artaud).

«Nessun’azione può realizzare il suo scopo, se non si smarrisce nell’atto. L’atto, a sua volta, per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticare la finalità dell’azione», scrive in Vita di Carmelo Bene. E poi ancora in Un dio assente:

Mentre l’azione è qualcosa di storico, legato al progetto, l’atto è oblio: per agire, occorre dimenticare, altrimenti non si può agire. In questo una parola come attore va decisamente riformulata. Mentre con attore s’intende per solito colui che fa avanzare l’azione, porgendo la voce al personaggio, io mi muovo in senso contrario. Vado verso l’atto, e cioè l’instaurazione del vuoto. Questo è il senso della sovranità o super-umanità attoriale.

Il punto di partenza della sua arte risiede in queste poche e concise parole. Frasi e pensieri che, praticamente alla lettera, avrebbe potuto scrivere Pirandello all’inizio del Novecento (si pensi al monologo del Padre nei Sei personaggi) e che si sono tradotte in modo diretto nei suoi lavori più paradigmatici. A partire dagli Amleti teatrali, filmici e televisivi (dal 1961 in poi) o dal Don Giovanni ripensato cinematograficamente nel 1970. Da Shakespeare a Laforgue passando per Mozart, al centro del lavoro di Bene c’è quel soggetto che mette in discussione la metafisica che sottende ogni gesto vitale («essere o non essere»), il suo scopo, la sua capacità di consegnare forma esteriore a un sentire interiore. Azioni e movimenti che vengono destrutturati, in cui la scrittura scenica diventa una «macchina attoriale» che, come dicevano Gilles Deleuze e Maurizio Grande, opera per sottrazione, rompendo l’«originale» per tornare all’«originario» delle cose.

C’è però un dato di unicità pressoché assoluta di Bene all’interno della tradizione tardo novecentesca (forse con l’unica altra eccezione di Leo De Bernardinis). È quella che Grande chiamava la «nostalgia del classico», che lo distingueva dalle coeve neoavanguardie. Non è solo l’eredità del grande attore ottocentesco a rivivere nell’uso della phoné (dove la scena è un luogo in cui si ascolta prim’ancora che si guarda), ma è l’intero impianto sonoro del teatro a essere utilizzato per destrutturare il ritmo dell’azione. Quella di Bene è una vera e propria macchina melodrammatica che utilizza il regime sonoro per destituire il primato letterario dell’opera e tornare al suo piano pre-espressivo, per ripensare, in termini nuovi, l’essenzialità del teatro scardinandone ogni referente metafisico.

È attraverso le musiche di Verdi che Bene supera il concetto di scrittura scenica in Macbeth Horror Suite del 1996, affondando letteralmente il testo shakespeariano in una colonna sonora debordante; oppure in Gregorio: cabaret dell’800 del 1961, in cui il registro acustico incessante spazia da Rigoletto a Traviata, da Cavalleria rusticana a Turandot. O ancora il crescendo vocale schumanniano con cui declama il Manfred (1978) di Byron, dove «il suono stesso diventa personaggio» (Deleuze). Questi e tanti altri frammenti di sonorità pura che inghiottono la parola e il suo significato, la sovrastano rendendo l’uomo e la macchina dei puri emissari di segni fonetici, i cui significati ideali sono delle mere astrazioni ancillari.

Un identico discorso vale per il suo cinema. Tendere verso l’immanenza del melodramma verdiano, istituire una forma “anti-cinematografica” irrappresentabile che nasca dallo spirito della musica, è la cifra di Nostra signora dei Turchi (1968) o Salomè (1972). La linearità del racconto cinematografico è sostituita dalla frammentarietà di quello operistico, fatto di aperture semantiche improvvise (monologhi e dialoghi come fossero arie e duetti), ricapitolazioni e anticipazioni di senso (la voce off del narratore quasi fosse un preludio o un interludio) dove il testo filmico, come fosse una partitura musicale, diviene pura archè, principio primo e noumeno inconoscibile delle cose. O dove ancora il puramente visibile è calpestato, sfaldato, negato di qualsiasi valore ontologico che non sia quello esclusivamente acustico.

L’infinita serie di citazioni operistiche è il vero oggetto di un cinema in cui l’immagine è un semplice, e coerente, corollario visivo del suono. Santa Margherita appare al protagonista di Nostra signora dei Turchi, ripetendo come litania la frase «Ti perdono, ti perdono», al suono della romanza Musica proibita di Gastaldon; nel finale di Salomè, Cristo-Bene esclama «Non voglio vedere più nulla, non voglio che nulla mi guardi» quando l’immagine diventa interamente bianca e risuona il «Te Deum» di Tosca. Il visibile deflagra in una raffica di colori e traiettorie geometriche. Le cose e i corpi sostengono, con il loro movimento, le fluttuazioni della melodia o di una frase musicale (Nostra signora dei Turchi). Oppure depongono definitivamente le loro possibilità di significazione, si esautorano (Salomè), lasciando alla musica esprimere ciò che è già al di là del linguaggio e delle sue gabbie semantiche.

Ecco dunque. Brevi sequenze, frammenti depositati nella memoria, di ciò che rimane oggi di Carmelo Bene. Sicuramente c’è molto più di questo nell’ultima lezione di un grande secolo finito, che dobbiamo commemorare per guardare finalmente oltre. Perché il futuro del teatro passa da ciò che siamo e saremo in grado di fare, ricordando Carmelo Bene per poterlo anche dimenticare.

Riferimenti bibliografici
C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998.
Id., U. Artioli, Un dio assente, Medusa edizioni, Milano 2007.
Id., G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002.
M. Grande, Carmelo Bene o la nostalgia del classico, in “Biblioteca teatrale”, nn. 13, 14, 15, 1989.

Carmelo Bene, Campi Salentina 1937 – Roma 2002.

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