C’è un’esigenza diversa, oggi, nello scrivere di cinema. O forse si rivela più chiaramente l’urgenza che ne sottende da sempre il gesto: quella di offrire uno sguardo attraverso cui orientarsi nel mondo, soprattutto ora, in cui il disorientamento prevale nello sguardo di chiunque. Quale immagine, quale sequenza balza alla mente repentina per associazione con il tempo presente? Le regole sono arbitrarie, frutto di un colpo di dadi, o di un incontro fortuito. Mi imbatto pochi giorni fa in un tweet di uno sconosciuto che ha postato una foto della sua finestra. Sul vetro lo sconosciuto (colpo di genio) aveva attaccato un adesivo trasparente, con una scritta: “Directed by David Lynch”. Ecco che improvvisamente il mondo da lui esperito attraverso la finestra trova un ordine, folle e visionario: il mondo diretto da David Lynch. Ho trovato quel gesto straordinario, anche per il tentativo, malinconico e ironico insieme, di creare un’immagine della propria esperienza, della propria percezione: un’immagine cinematografica.
Ecco, Lynch. Mi viene incontro allora un’altra immagine, posta all’inizio di Velluto blu. Una sequenza di immagini di prati, case e staccionate piene di colori, una musica dolce e malinconica, il ritratto di una comunità felice? Un uomo è fuori, nel suo giardino, sta innaffiando il prato. All’improvviso ha una contrazione di dolore, si porta la mano dietro la testa, crolla riverso sul prato. Dal tubo continua ad uscire potente il getto d’acqua che dall’inquadratura sembra provenire direttamente dai suoi genitali. Un cagnolino si avvicina e cerca di bere l’acqua che esce copiosa dal tubo. La macchina da presa si allontana, ma non verso l’alto o lateralmente: letteralmente affonda, oltrepassa i fili d’erba, inquadra il suolo. Ecco che allora quel mondo idilliaco scompare; ad uno sguardo ravvicinato, sotto la superficie della realtà colorata c’è un mondo oscuro, che è questo stesso mondo, non separato, non altro. Un mondo pieno di insetti, di forme di vita quasi invisibili, che Lynch mostra come un mondo brulicante e repellente insieme.
Nel libro-intervista con Chris Rodley, Lynch secondo Lynch (Dalai, 1998), il regista americano utilizza ad un certo punto un’immagine, quella di un albero, bello e rigoglioso. Se proviamo ad avvicinarci sempre di più, fino quasi a toccarlo con gli occhi, quella bellezza e quella maestosità mostrerà anche altro: sotto la sua corteccia ci sono file di formiche rosse.
Ecco allora farsi strada un’immagine, non la più potente, non l’unica, ma un’immagine. Non dice tutto il presente, non abbraccia con la sua potenza la complessità di una esperienza come quella che tutti noi stiamo vivendo, ma dice qualcosa di tutto questo: essa mostra attraverso il cinema l’inconsistenza dell’illusione di realtà che costituisce il nostro mondo quotidiano; essa è appunto una coloritura di superficie, ma il reale irrompe a volte con forza, scardinando le nostre costruzioni, che chiamiamo normalità, realtà. Mentre scrivo tante altre immagini emergono, che sembrano legarsi all’incipit di Velluto blu con un movimento fluido, naturale. Sono i molti sguardi che rendono grande (ancora) il cinema.
Velluto blu. Regia: David Lynch; soggetto: David Lynch; sceneggiatura: David Lynch; fotografia: Frederic Elmes; montaggio: Duwayne Dunham; musiche: Angelo Badalamenti; interpreti: Kyle MacLachlan, Isabella Rossellini, Dennis Hopper; produzione: Filmauro; distribuzione: Filmauro; origine: USA; durata: 121’; anno: 1986.