E’ uscito non da molto, nella bella collana Bussole di Carocci, il libro di Anna Masecchia Varda: Les Plages d’Agnès (2024), studio monografico ma dal respiro ampio, con cui l’autrice si è assunta il rischio di analizzare un film estremamente complesso in un viaggio che mantiene saldi i legami sia con la storia del cinema che con le numerose incursioni nella cultura visuale, lungo un periodo che dal secondo Novecento arriva fino all’era digitale. Perché Varda, con Jean-Luc Godard e pochi altri, è una filmmaker che fin da subito si è interessata al problema della trasformazione delle immagini, in particolare agli apporti offerti dai media contemporanei e alle sperimentazioni e ibridazioni implicate nei visual studies.   

Masecchia si è occupata del cinema di Varda a più riprese e con varie pubblicazioni, in questo volume il percorso suggerito è quello del fare esperienza del cinema della regista francese per via della pratica del posizionamento – in termini di consapevolezza e di pathos –, modalità che d’altronde appartiene alla stessa Varda: la capacità di potersi situare, individualizzandosi nel tempo e nello spazio, e da questa posizione sperimentare al tempo stesso anche nuovi modi di vedere. Perché se si restituisce forza pregnante al valore dell’esperienza biografica (e del processo di presa della realtà), si può attuare con lo stesso esistente un rapporto informato a una costante tensione decostruttiva, dialogica e progettuale, come sembrano dirci le esplorazioni di Varda, così foriere di figurazioni alternative e di soggettività impreviste, in rapporto vincolante con il «tipo di ibrida mescolanza che stiamo diventando» (Braidotti 2002, p. 10).

Con Braidotti pensiamo a queste esplorazioni biografiche come a un «processo di autocoscienza che comporta un risveglio politico e quindi l’intervento di altri […] forma di autocritica, di critico e genealogico racconto di sé […] resoconti incarnati che illuminano e trasformano la conoscenza di noi stesse e del mondo». E in questo senso, già in Corti viaggi sentimentali con Agnès Varda (Masecchia 2020, p. 21), Masecchia traccia i contorni di una pregnante e fluida costellazione vardiana: 

Come la conferenziera di viaggio Esther Lyons a cui fa riferimento Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni, Agnès Varda è stata una voyageuse coraggiosa. L’atto di filmare ha significato per lei abitare lo spazio attraversando un “terreno aptico, emotivo”. Come altre registe, estensioni nel tempo delle conferenziere per immagini che le hanno precedute, anche Varda ha esplorato il mondo per conoscere e definire se stessa in quanto artista e donna: Parigi, ma anche città e luoghi (più o meno) lontani, hanno nutrito quei paysages avec figures che compongono il suo cinema e nei quali ha riscritto il suo fare esperienza del mondo.

Così come, nel recente Pianeta Varda, volume a cura di Masecchia e di Luca Malavasi (Edizioni ETS, 2022), emblematica è la citazione di Varda scelta dai curatori in apertura (qui in estratto): «Ci sono tre parole che sono importanti per me. Ispirazione, creazione e condivisione. […] Non si fanno film per guardarli da soli. Si fanno film per mostrarli. Queste tre parole mi hanno guidato. Dobbiamo sapere perché facciamo questo lavoro». 

Tornando a Varda: Les plages d’Agnès, Masecchia evidenzia la natura indomita di Varda in quanto storica dell’arte, fotografa, animatrice della Nouvelle Vague, sperimentatrice audiovisiva e ideatrice di mostre e installazioni, sorta di fenomeno (logico e patico) che è riuscito ad attraversare e a incontrare il campo estremamente fertile e non gerarchico della cultura visuale. Si delinea, pertanto, la figura di una Varda molto contemporanea, un’artista che fin dagli esordi precoci sa come tenere a bada smanie specialistiche e tentazioni convenzionali e unificanti. Assumersi rischi e sperimentarsi negli errori piuttosto, applicandosi in una incessante ricerca e raccolta di immagini spaziante (e spazializzante) in pratiche insieme onnivore e enciclopediche (Masecchia 2024, p. 7), relazionali e sensibili: l’atelier-Varda come spazio creativo ed etico del porsi domande e cercare delle risposte. 

Come in Les Plages d’Agnès (Varda, 2008), ma prima ancora, a partire dagli anni ottanta, in molti altri suoi lavori che ibridano documentario e finzione e che adoperano con sapienza immagini d’archivio, il gesto che segna – e scompone, a vantaggio della raccolta di chi guarda – l’opera, diventa allora quello della «collezionista-glaneuse che sa fare dell’archivio una cosa viva, un generatore inesauribile di nuove storie e nuove invenzioni» (Masecchia 2024, p. 7), qualcosa con cui entrare in una relazione sempre attiva – tanto che spesso Varda usa autoritratti preesistenti che la vedono comparire «con l’occhio applicato al mirino (della macchina fotografica o da presa)» (ivi, p. 40). Masecchia osserva con finezza come «con il suo cinema, Varda abbia costantemente raccolto in immagini ciò che sopravanza al vivere quotidiano, quella realtà in esubero che, invece di andare persa», potrebbe «essere recuperata e trasformata in esperienza» (ivi, p. 39).

In ciò recuperando anche quel di più di realtà proprio a un modo specifico e pregnante di guardare in cui il reale è un reale sempre da decifrare, sempre ambiguo. Questa riflessione deleuziana sul neorealismo viene utilizzata da Masecchia, insieme a quella di Astruc sulla caméra-stylo, per focalizzare l’attenzione sullo statuto estetico e ontologico dell’immagine vardiana: il cinema come strumento per conoscere la realtà, ma allo stesso tempo, e inscindibilmente, stando ancora nella prospettiva situata, «per pensarsi soggetti in relazione al reale, in un nuovo dialogo tra l’obiettività dell’immagine cinematografica e lo sguardo soggettivo di chi inquadra e filma» (ivi, p. 14); e insieme il cinema come luogo «di incontro con l’alterità» ed «esplorazione critica del mondo» (ivi, p. 27).      

Così che quando una giovane Varda dichiara (con sfrenato esprit vertoviano) «Non sono dietro la macchina da presa, ci sto dentro! Ho spesso l’impressione di essere una macchina da presa» (ivi, p. 11), particolarmente densa risulta la sollecitazione di Masecchia nel vedere il rapporto di Varda con la fotografia e con i corsi di Gaston Bachelard, seguiti alla Sorbonne, un momento significativo della sua ricerca diretta a dare forma mediata, in-relazione, al proprio desiderio di presa immediata sul mondo. Nelle «genealogie femminili» (ivi, p. 15) Varda inventa un proprio metodo, passando dalla mise en cadre, legata al referente fotografico, alla cinécriture in quanto prassi artistica e mezzo per riflessioni filosofiche. 

Nel considerare La vita è un raccolto (Les Glaneurs et la glaneuse, Varda, 2000), racconto autobiografico in forma di raccolta di immagini, Masecchia associa in modo esemplare la disposizione situata e spazializzante di Varda con la sua idea di cinécriture: analizzando una sequenza, l’autrice si sofferma sul tableau vivant «in cui la regista si mette nella posa della Spigolatrice di Jules Breton con un fascio di spighe sulla spalla, mentre commenta in voce over: “La spigolatrice, quella del titolo di questo documentario, sono io. Lascio cadere volentieri le spighe di grano per prendere la videocamera”», per poi, più avanti, evidenziare come Varda, tramite un uso epidermico della videocamera, faccia entrare in scena le proprie stesse mani mentre raccolgono gli scarti (ivi, p. 35).

Istanza soggettiva e clima optico in campo a svantaggio della presunta neutralità della macchina da presa, in un dinamismo visivo improntato – come suggerisce l’autrice a proposito dello stesso metodo di analisi adottato nel rapportarsi a Les plages d’Agnès e insieme all’opera di Varda – a uno sguardo al tempo stesso centripeto e centrifugo: mettere in movimento il punctum di una immagine (ivi, p. 35) per mezzo di una prassi filmica che dichiara la propria «marca enunciativa», «la presenza di una regista-performer», il suo situarsi nel campo, con lo sguardo ma anche con la voce e con il proprio corpo, in quella che Masecchia chiama «relazione ermeneutica che si fa toccare dal reale attraverso i sensi e le emozioni, stabilendo una relazione empatica con ciò che si filma, relazione che si estende poi a una forma di condivisione con gli spettatori» e con le «relazioni che un testo intrattiene con un macrotesto».

La figura(zione) della cinécriture trovata da Varda diventa così, conclude Masecchia, «gesto soggettivo e politico al tempo stesso: nasce da un’emozione per diventare uno stile» (ivi, p. 31). Stile mobile, aggiungiamo, mai sazio né regressivo, implicato in una errante ed ecologica glaneuse, di spiaggia in spiaggia.

Riferimenti bibliografici
M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990.
R. Braidotti, In Metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, Feltrinelli, Milano 2002.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.
A. Masecchia, Incontro con Agnès Varda, in “Arabeschi”, n. 16, 2020.
L. Malavasi, A. Masecchia, Pianeta Varda, ETS, Pisa 2022.
H. Schmitz, Nuova Fenomenologia. Un’introduzione, Marinotti, Milano 2011.

Anna Masecchia, Varda: Les Plages d’Agnès, Carocci, Roma 2024.

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