Nelle prime battute di Les Plages d’Agnès (2008), un’ottantenne Agnès Varda colloca degli specchi lungo una spiaggia. «Farmi filmare riflessa in vecchi specchi e dietro ai foulards»: la regista espone così, ironicamente – un’ironia che, però, nel suo lavoro va presa sul serio –, la sua idea di autoritratto. Nel tentativo, che caratterizza l’ultimo periodo della sua produzione artistica, di ritrarsi per raccontare la sua vita, Varda utilizza gli specchi per conoscersi e riconoscersi. Negli specchi di diverso formato, Varda compare e scompare; la sua figura si confonde con quelle dei suoi aiutanti che appaiono sulla scena: si tratta di un «ringraziamento in carne ed ossa», per quei «giovani ragazzi» senza cui il suo lavoro non potrebbe essere. Negli specchi, si riflettono anche la sabbia e le onde del Mare del Nord; il campo della visione è, dunque, saturato da molti elementi, mentre Varda continua a svanire. Tuttavia, è proprio negli specchi, luogo di incontro degli altri, delle onde del mare e della sabbia che Varda esiste; è da lì che – dice – può iniziare a parlare di sé, perché è da lì che può iniziare a conoscersi.

Già nella prima parte dell’autobiografia del 1994, il volume Varda par Agnès, pubblicato dopo una retrospettiva che la Cinémathèque française le dedica nello stesso anno, la regista decide di cominciare da alcune parole «in disordine» che le sono venute in mente spontaneamente, e che, però, sistema in ordine alfabetico per invitare, «in modo rassicurante», i lettori a perdersi nel suo mondo (Varda 1994, p. 7). Se la prima tappa di quel viaggio senza una meta precisa è la A di Agnès, le altre tappe-parole richiamano gli artisti, i filosofi, i luoghi, gli elementi materiali con cui co-costruisce il suo mondo: Bachelard, Bertolucci, Demy; Cina, Kafka, Rosalie, la sabbia. Ogni lettera dell’alfabeto apre plurime dimensioni; si triplica o si quadruplica. Alcune parole sembrano attrarsi; altre addirittura entrare in collisione, ma sono, ancora una volta gli incontri casuali e spontanei tra quelle parole che permettono il sorgere di un nuovo mondo o, forse, meglio, di un nuovo pianeta: Pianeta Varda.

Pianeta Varda (ETS, 2022) è anche il titolo del volume collettaneo curato da Luca Malavasi e Anna Masecchia. Il lavoro ricorda nella struttura il libro autobiografico vardiano del 1994; è infatti composto da ventidue parole sistemate in ordine alfabetico. Quella sistemazione, però, come dichiarano i curatori nell’introduzione, non pretende di essere un «sistematico abécédaire Varda, operazione che, nel suo modo fantasioso e libero, (la regista) aveva già fatto nel libro Varda par Agnès, ma una selezione di oggetti, campi del pensare e del fare nati, come le sue immagini, da impressioni passate al setaccio, dalla ragione» (Malavasi, Masecchia 2022, p. 12). Il volume, allora, diventa un tentativo di collage: un componimento di parole in grado di generare «imprevisti e sorprese» e che, dunque, conduce il pianeta, come una galassia, a un’incessante espansione. Ecco perché i curatori uniscono alle “istruzioni per l’uso” del cinema di Varda, che il libro si propone di essere, una “modalità d’uso” del libro stesso: si invita il lettore a fluttuare tra le pagine:

Opera di “smontaggio”, dunque, più che di schedatura, questo libro è nato nella speranza di somigliare a Varda e ai suoi film (le sarebbe piaciuto?), e si ispira esplicitamente al suo metodo di lavoro (che è poi, a monte, un metodo di vita), fatto di incontri, inciampi, rimandi più o meno sorprendenti, dialoghi a distanza, emergenze impreviste, incroci indisciplinati. […] Volutamente morcelé, questo libro può essere letto dall’inizio – la A di America – alla fine – la V di Volto –, ma può anche essere percorso liberamente da un punto all’altro o, ancora, attraversato facendosi guidare dalle parole stesse, che si parlano incessantemente e che, in molti casi, usano le stesse parole per dire cose diverse, oppure di queste stesse parole rivelano sfaccettature ulteriori (Malavasi, Masecchia 2022, pp. 12-13).

Dall’America all’Archivio; dall’Autoritratto, alla Cinécriture, passando per la Fotografia, la Memoria, Parigi e la Nouvelle Vague, la Revêrie, i Villaggi e la Voce; in effetti i diversi discorsi che costruiscono Pianeta Varda conducono verso direzioni inaspettate: dal cinema alla fotografia e alle installazioni, fino ad arrivare a confronti con le opere degli artisti e registi con cui Varda ha condiviso il suo percorso artistico e la sua vita – perché, come non si smette di ripetere giustamente nei contributi, la vita e l’opera di Varda sono inseparabili.

Fluttuando tra le pagine del volume, può succedere di essere risospinti verso la questione che i curatori pongono nell’introduzione: cosa avrebbe detto Varda di questo libro (che, inciso forse importante, è ancora uno dei pochi volumi italiani dedicati alla sua opera), che vuole somigliare all’artista, ispirandosi al suo metodo di lavoro, al suo metodo di vita? Forse non c’è niente di più difficile per chi studia le immagini – siano esse cinematografiche, pittoriche, poetiche; immagini di installazioni o videoinstallazione – che scrivere delle (e riscrivere le) immagini. È sempre in agguato il rischio di emulare il metodo di colui o colei che ha creato le immagini, ossia: il rischio di emulare il suo stile.

Nell’autobiografia del 1994, nella voce C comme Cinécriture, Varda problematizza la questione dello stile al cinema. La cinécriture è lo stile al cinema, che non riguarda unicamente la sceneggiatura, ma i movimenti di macchina, i luoghi, il ritmo delle riprese e il montaggio, che sono importanti così come per uno scrittore è importante scegliere tra «frasi dense o meno, tipo di parole, frequenza degli avverbi, paragrafi, parentesi, capitoli che continuano il senso della storia o lo contrastano, ecc. Nella scrittura è lo stile. Al cinema, lo stile è la cinécriture» (Varda 1994, p. 14). Lo stile in quanto composizione – qualcosa di simile, la sostiene anche Gilles Deleuze alla lettera S comme Style del suo Abécédaire (1988-1989), laddove afferma che lo stile è una questione compositiva – è la forma di un pensiero.

In virtù del suo lavoro – cinematografico, fotografico o da visual artist –, di quell’arte dell’incontro, di quell’anamorphose métamorphose, che, secondo Varda, è la magia stessa del cinema (ivi, p. 10), l’operazione di un volume dedicato alla sua opera e alla sua vita, che tende a somigliare al suo stile per partecipare (e far partecipare) del suo pensiero, è, forse, non solo possibile, ma anche opportuna, se si vuole dare contezza di un’opera e di una vita dell’incontro. Già nel 1958, «Varda usa la caméra-stylo per comporre il diario di un’antropologa che esplora la rue Mouffetard, ma la ricerca di uno stile personale si fa sentire e implica un’autoreferenzialità della scrittura che fa dello spettatore un osservatore e non qualcuno che partecipa dell’esperienza vissuta dell’autrice» (Malavasi, Masecchia 2022, pp. 43-44). Lo spettatore infatti, nelle opere di Varda, è sempre messo in gioco, reso partecipe delle rêveries in movimento, che somigliano «a una passeggiata nel tempo e a un invito, per il pubblico, a interagire con le immagini e le voci che essa ha catturato sullo schermo» (Malavasi, Masecchia 2022, p. 114).

Partecipare all’opera di Varda, abbandonarsi al suo metodo e al suo stile del collage, a sua volta abbandonato agli incontri, alle casualità e agli imprevisti; somigliare all’artista e ispirarsi al suo metodo di lavoro e di vita, allora, non vorrà dire emulare. Dal latino aemulari, a sua volta derivato da aemulare, aemŭlus, “emulo, rivale”, l’emulazione ha a che vedere con la rivalità e la competizione. Niente di più lontano da Varda: il partage – una delle parole fondamentali del suo lavoro assieme a inspiration e création – è una condivisione che invita lo spettatore a ragione a partire da lei, con lei, e oltre di lei, sul mondo che, tra documentario e finzione ci mostra; a creare e ricreare quel mondo; a scrivere o a cinescrivere con e per i soggetti dei margini, tenuti al di fuori del mondo visibile – per il resto delle immagini, ossia per ciò che dall’immagine è stato escluso o dimenticato. La sua cinécriture, infatti, che si dispiega in maniera dialettica tra il personale e il collettivo, tra la dimensione emotiva e quella razionale, tra la finzione e la realtà, anticipando, ai suoi esordi, la sfida lanciata anni dopo da Jean-Luc Godard attraverso il personaggio di Ferdinand in Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965): scrivere un romanzo su ciò che c’è tra la gente «lo spazio, il suono, i colori»; Varda lo fa con la sua cinécriture ma a quel «tra» si aggiunge un «con» la gente, attraverso una scrittura poetica, metaforica, ironica e associativa. La cinécriture è un gesto soggettivo e politico insieme: nasce da un’emozione per diventare uno stile» (Malavasi, Masecchia 2022, p. 45).

Probabilmente Varda avrebbe considerato il libro un’estensione del suo stile e, forse, anche un’estensione del suo pensiero; un gesto creativo, collettivo e anche politico, laddove, smontando e consegnando ai lettori la possibilità di rimontare o di complicare ulteriormente quello smontaggio, induce ad abbandonarsi all’imprevisto, a fare dell’imprevisto stesso il luogo di un’ulteriore espansione (“anamorfico-metamorfica”) del Pianeta (d’arte) Varda e del nostro mondo – mondo che bisogna «fare e disfare», come fanno i personaggi dei suoi film (Cortellazzo, Marangi 1990, p. 65).

Varda conosceva una potenza metamorfica del cinema molto meno costosa degli effetti speciali hollywoodiani che vogliono creare nuovi mondi, ma non meno fantastica e, in più, aggiungiamo, in presa diretta con il nostro mondo: «Conservo nella mia mente L’Âge d’or come un film magico. Se ci penso, una brezza di rivolta, provocazione e poesia mi libera la mente. La coppia filmata mentre fa l’amore nel fango durante un discorso ufficiale è per me tutto il cinema» (Varda 1994, p. 12).

Riferimenti bibliografici
A. Varda, Varda par Agnès, Cahiers du cinéma, Paris 1994.
S. Cortellazzo, M. Marangi, Agnès Varda, EDT, Torino 1990.

L. Malavasi, A. Masecchia, Pianeta Varda, ETS, Pisa 2022.

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