L’8 settembre 2021 si apre il processo a quattordici persone accusate di essere complici e responsabili degli attentati di matrice islamica che venerdì 13 novembre del 2015 hanno colpito Parigi e che si sono concentrati nel I, X e XI arrondissement e allo Stade de France. La più sanguinosa delle sparatorie è avvenuta presso il Bataclan, dove sono rimaste uccise novanta persone. In quello che è stato il secondo più grave atto terroristico nei confini dell’Unione europea, dopo gli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid, sono morte cento-trenta persone e otto dei nove attentatori. Nonostante possa risultare eccessiva la definizione “la Norimberga del terrorismo”, facendo riferimento a questo processo, come sostiene lo stesso Carrère, dal momento che a venire processati non sono i diretti carnefici della strage, come potevano essere i gerarchi nazisti nel 1945, ma «figure di secondo piano, dato che quelli che hanno ucciso sono morti» (Carrère 2023, p. 14), sarà comunque qualcosa di «altrettanto enorme e inedito» (Ibidem).

Emmanuel Carrère, come racconta Grégoire Leménager, vicedirettore della redazione dell’Obs, nell’autunno del 2020, poco dopo l’uscita di Yoga (2020), propone al responsabile delle pagine culturali del quotidiano di realizzare dei reportage, il primo dei quali sarà Les Enfant de la Pitié, uscito nel gennaio 2021 sul reparto di psichiatria infantile della Pitié Salpêtrière. A quel punto Grégoire gli propone di seguire il processo dei fatti del 13 novembre. V13, così veniva chiamato il processo, raccoglie le cronache settimanali scritte da Carrère sulle pagine dell’Obs, e riprese anche da Repubblica in Italia, oltre ad alcuni brani che non avevano trovato spazio originariamente nel quotidiano.

Le prime due settimane del processo consistono nella ricostruzione dei fatti da parte di gendarmi, medici, infermieri, poliziotti, che vengono a descrivere quello che hanno visto. Viene mostrato il minimo indispensabile, foto ma scattate da lontano, piantine, nessun corpo insanguinato. Viene invece proiettato il video di rivendicazione diffuso dallo Stato islamico dopo gli attentati, che esibisce il terrore, il sadismo, mentre di solito la propaganda tende a nasconderlo agli occhi esterni. Le cinque settimane successive vedono invece alternarsi le testimonianze delle parti civili, ovvero i sopravvissuti e i famigliari di chi è morto. Riportando i racconti di chi ha vissuto un simile trauma, Carrère sostiene come gran parte delle vittime che vengono ascoltate sembrano davvero degli eroi «per il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il modo di abitare questa esperienza» (ivi, p. 46), andando così a riconfigurare il paradigma vittimario, spesso accostato alla nostra società, «che alimenta una compiacente confusione tra lo status di vittima e quello di eroe» (Ibidem).

Tuttavia, ci sono posizioni differenti, nonostante lo slogan “non avrete il mio odio”, che caratterizza molte testimonianze e che diventerà un vero e proprio inno durante il processo, chi ha aperto le porte per un dialogo, come il padre di una vittima che ha scritto un libro con Azdyne Amimour, il cui figlio si è fatto esplodere sul palco del Bataclan, emerge anche un “arcaico furore” di cui dobbiamo riconoscere l’esistenza e che ci rende umani. Tra le voci che si elevano all’unisono costruendo un racconto collettivo di solidarietà, fratellanza reciproca, senso di giustizia che deve prevalere sul sentimento di vendetta, Carrère si concentra anche su quella di un uomo, Patrick Jardin, che ha perso la figlia al Bataclan, che si rifiuta di perdonare gli attentatori, che si dichiara militante di estrema destra e sputa odio contro l’Islam.

Non per questo il suo dolore deve essere considerato meno rispetto a quello degli altri, sostiene lui e si chiede lo scrittore mentre indaga il mistero del male. Questo aspetto affascina e intriga maggiormente Carrère, dalla mutazione patologica dell’islamismo a cosa spinge un avvocato a difendere un terrorista. Se è certamente vero che i figli non sono responsabili delle colpe dei padri è più problematico sostenere il contrario, che la famiglia non c’entri se il figlio da grande diventa assassino. Le loro sofferenze meritano uguale compassione? Cos’è peggio? Avere un figlio assassino o un figlio assassinato?

Carrère è certamente più affascinato dai colpevoli che dalle vittime, perché se verso quest’ultime si prova pietà, è la vita degli imputati che passi al setaccio, al fine di trovare quel punto di rottura che li ha portati al crimine. Tuttavia, lo scrittore sostiene come i loro interrogatori non siano stati avvincenti o entusiasmanti, deposizioni dalla forma eccellente e dal pensiero rigoroso, non confessioni di fanatici squilibrati. Ma non sono interessanti le loro testimonianze perché loro non hanno niente da dire o perché noi non abbiamo cercato di capire? «Tutto quello che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Il libro dovreste leggerlo dall’inizio», è la frase che pronuncia Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto tra gli attentatori, colpevole di aver preso parte alla sparatoria nei pressi dei due bistrot in Rue de la Fontaine au Roi da cui poi scappa in macchina. Questa frase colpisce molto Carrère e la riprende più volte nel corso del libro, interrogandosi proprio sulla necessità di provare a comprendere. Questo è anche uno dei motivi per cui c’è il processo, richiamando un precetto di Spinoza “non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto”. Secondo altre persone invece, come il primo ministro dell’epoca Manuel Valls, “spiegare è già voler giustificare”.

Abdeslam è l’imputato centrale del processo, la cui condanna è già scritta, ergastolo, bisognerà vedere se sarà senza alcun tipo di condizionale o meno. Il ragazzo che viveva a Molenbeek in Belgio è l’unico realmente consapevole e artefice dell’accaduto, gli altri imputati sono pesci più piccoli, chi ha falsificato documenti, chi ha ri-accompagnato il terrorista da Parigi ma all’oscuro, pare, delle azioni dell’amico. Abdeslam dirà al processo di non essersi fatto saltare in aria non per paura di morire o vigliaccheria ma perché ha sentito un profondo senso di empatia verso quei coetanei così simili a lui, ma profondamente diversi, che lo hanno fatto desistere dal suo piano. Non sapremmo mai quale sia la verità. Ma le domande poste nel libro sono inevitabilmente domande che non avranno risposta, situazioni e sensazioni inconoscibili e irrappresentabili, come il dolore delle vittime, di chi ha perduto un proprio caro così come l’odio che spinge l’essere umano ad ucciderne un altro.

In maniera differente rispetto ad altre opere e ad altri ritratti di persone realmente esistite delineati da Carrère, in V13 emerge meno l’io e l’identità stessa dell’autore. Ad acquisire lo spazio centrale è il processo come rito collettivo e la testimonianza come processo di rielaborazione. «Il terrore è la scomparsa di quel sipario dietro il quale si nasconde il nulla e che normalmente permette di vivere tranquilli» (ivi, p. 227), afferma il pubblico ministero Camille Hennetier alla fine della requisitoria. Potremmo dire che V13 cerca di sondare quella zona d’ombra che si cela oltre il sipario, di avvicinarsi al mistero del male, ad azioni e sentimenti extra ordinari, riflettendo sulla necessità di tentare di comprendere atti che sembrano sfuggire alla nostra comprensione, a cui qualunque risposta sembra inadeguata, anche quella della giustizia.

Emmanuel Carrère, V13, Adelphi, Milano 2023.

Tags     Carrère, terrorismo
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