Un uovo racchiuso in uno strofinaccio bianco annodato, da riporre sotto al giaciglio che accoglie i corpi vicini nella notte; un piatto pieno d’acqua con delle gocce di olio che galleggiano fino a fondersi in un liquido omogeneo con il solo scopo di verificare la potenza dello sguardo degli altri sugli altri: sono alcuni dei riti che rivelano il malocchio, l’invidia, il cattivo pensiero, e tutto ciò da cui occorre proteggersi quando andare a messa tutte le settimane non sembra sufficiente per sentirsi protetti. Sono i riti che Brenda (Federica Valentini) apprende da sua nonna, in una casa della periferia romana che visita spesso, e solo in compagnia del suo fidanzato Alex (Enrico Bassetti) e dell’amico di entrambi, Kevin (Zackari Delmas). Nel film d’esordio di Alain Parroni – vincitore del Premio Speciale della Giuria Orizzonti alla 80. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e coprodotto da Wim Wenders – c’è poco spazio per gli ambienti domestici, laddove questo termine non circoscrive un luogo da chiamare casa, ma indica una più estesa e complessa operazione di addomesticamento che vorrebbe i corpi rimessi a una canonica costellazione di sistemi familiari.
Brenda, Alex e Kevin compongono il loro sistema, essendo liberi di muoversi, senza vincoli che non siano quelli che vanno oltre l’affetto che li trattiene insieme a dormire incastrati in una Peugeot cabrio gialla, a ridosso di un abbeveratoio in cui possano lavarsi, a trattenersi per le catene su una giostra a seggiolini, oppure a passeggiare nei corridoi lucenti di un centro commerciale, e certamente più accattivanti dell’aria di Roma che non fa altro che rimbalzarli da una via all’altra, nella folla che diventa bella solo quando appare qualche orologio al polso da rubare. Non ci sono case nelle immagini che compongono il loro presente, a eccezione dell’appartamento della nonna di Brenda e del camper dell’uomo che, per un periodo, darà lavoro ad Alex; non ci sono legami familiari; non ci sono posti per essere stanziali, soltanto mezzi per muoversi: la moto, la macchina, il treno, le gambe, come se la vita fosse quella “sterminata domenica” in cui gli orari si sospendono e, almeno come auspicio, si gode il tempo come riposo. Il settimo giorno, la festa del Signore, la speranza di una concessione che si dà nella grazia di una promessa anche quando questa promessa garantisce che il riposo non è mai per tutti.
Nel tempo in cui la musica (curata sapientemente da Shirō Sagisu) invita a muoversi continuamente, Parroni racconta di due ragazzi e una ragazza che assecondano il flusso, accordando i loro passi alla vita che accade, per il modo in cui accade: Alex festeggia il suo compleanno di diciannove anni, Brenda scopre di essere incinta, Kevin ruba un borsone a un militare addormentato su un treno; Alex inizia a lavorare, Brenda prega, Kevin si rompe un braccio cadendo da un’impalcatura; e così via, in un concatenamento di gesti in cui non sopravvive alcun pensiero che non sia quello dell’esserci. Perlomeno, questo è lo spazio che le immagini concedono di vedere, in una dimensione in cui l’intero universo dei tre viene riportato ai momenti in cui condividono reciprocamente la vita facendone uno spazio sterminato.
Cosa significa vivere in uno spazio sterminato? E cosa significa fare di quello spazio un intero, e allo stesso tempo, un solo e sterminato giorno? Parroni potenzia il dispositivo filmico attraverso una dilatazione del regime immaginario rendendo così impersonale lo sguardo che osserva e restituisce le esistenze dei tre protagonisti. È un gioco compositivo complesso che si regge sulla commistione tra più generi di inquadrature – dal campo lungo, ai primi piani strettissimi, fino all’apertura delle riprese dal basso – che vivono di una luce discreta, tendente a tonalità che risultano quasi sempre stranianti rispetto all’ambientazione che restituiscono. La messa in forma di una sospensione dei luoghi si riflette negli accorgimenti estetici che individuano una vera e propria matrice stilistica capace di travalicare il nucleo narrativo per presentarsi come immagine nuda e paradossale. Si tratta di un’immagine che mantiene la sua attenzione su tre corpi che negli ambienti si muovono – perlopiù spazi aperti e antropizzati – e vivono pienamente, senza porre domande perché le risposte non servono. Perlomeno, non servono fino al momento in cui questi corpi continuano a costituire il sistema in cui ciascuno di loro occupa una posizione di rilievo per l’altro o per l’altra.
Quando Alex scopre che, probabilmente, Brenda ha concepito il bambino con Kevin, si raggiunge il punto drammaticamente più alto del film che viene segnalato da uno spostamento dello sguardo che, dalla vita in tre, si rimette alla vita di uno. Tale accadimento è anticipato da una sequenza del film in cui il sistema inizia a perdere di consistenza: Brenda e Kevin si baciano, e passeggiando per Roma, decidono letteralmente di occupare lo spazio in cui altri si trovano plasticamente fermi e pronti per una fotografia. Nella carrellata di istantanee, i due sono ai margini, ma insieme. Ancora una volta, la resa di una dinamica emotiva trova il suo corrispettivo nella creazione di un contenuto visivo che traduce il modo in cui i due stanno al mondo senza Alex: sono corpi fermi, anche i loro, mentre il punto di vista si sposta gradualmente sull’unico dei tre che è ancora disposto a restare in movimento. Del resto, la rottura dell’equilibrio era stata segnalata anche da un’altra sequenza in cui il ragazzo si muove in una scena che è volutamente basata sull’ambiguità tra dimensione onirica e veglia.
Quando Brenda e Kevin restano bloccati nelle immagini degli altri, Alex continua a vivere nella costrizione del movimento: vede il cane bianco morto in strada (un tempo soggetto di scherno e di spavento), così come, poco prima di scoprire del tradimento, aveva visto, quasi fosse una visione o un presagio, gli occhi sbarrati nel corpo morto di una delle poche persone che gli aveva concesso fiducia dandogli la possibilità di lavorare (Lars Rudolph). La visione delle sue peregrinazioni satura lo spazio dello schermo, con la complicità di una musica che si fa sempre più insistente nella ripetizione di un ritmo che blocca il pensiero sul nulla. Al movimento, ora, occorre aggiungere l’azione, e se la domenica non può più essere sterminata, allora deve diventare una domenica da sterminare: Alex, dietro a un maxischermo allestito sulla sommità di un palazzo per trasmettere la messa domenicale del Papa, spara alla folla dei fedeli radunati in piazza. Scappa in moto. Cade. Il suo corpo è su un elicottero mentre, nella Peugeot bloccata nel traffico, nasce la bambina di Brenda e Kevin grida i suoi anni nel vacuo lamento di chi spera sempre di essere accudito come un bambino, e come non lo è mai stato. La moto è rotta, la macchina è inservibile: Brenda dice che la bambina è sua e di nessun altro. La domenica è un tempo finito. O che deve finire.
Una sterminata domenica. Regia: Alain Parroni; sceneggiatura: Alain Parroni, Giulio Pennacchi, Beatrice Puccilli; fotografia: Andrea Benjamin Manenti; montaggio: Riccardo Giannetti; musica: Shirō Sagisu; interpreti: Enrico Bassetti, Zackary Delmas, Federica Valentini, Lars Rudolph; produzione: Fandango, Alcor, Art Me Pictures, Road Movies, Rai Cinema; distribuzione: Fandango, Ufo Distribution; origine: Italia, Germania; durata: 110’; anno: 2023.